Entretien avec Costanzo Preve (13/07/2009)
Risposte di Costanzo Preve a sette domande poste dalla rivista francese « Rébellion » ( traduction en français dans notre numéro 37) .
R/ Tu respingi la pertinenza della dicotomia Sinistra/Destra. E sei stato, sembra, vilipeso per questo in Italia. Puoi spiegare il tuo pensiero in proposito, insieme con la genesi di questo pensiero? E come bisogna fare per tradurre politicamente la critica di questa dicotomia ?
Gli attacchi cui sono fatto oggetto in Italia (insieme alla rottura, o all’indebolimento di amicizie decennali) non hanno potuto minimamente modificare il mio programma di lavoro e di ricerca, che è di cento et ottanta gradi, e quindi non può accettare il ricatto di chi ti vuole imporre che sia solo a noventa gradi. Chi cerca vie nuove deve sempre pagare dei prezzi, e ritengo i prezzi da me pagati minimi. In quanto insegnante in pensione, non ho dovuto pagare prezzi economici (espulsioni politiche, licenziamenti, mancate assunzioni, eccetera). Ancora una volta, ha funzionato il principio marxista per cui la libertà spirituale è possibile soltanto sulla base di una precedente libertà materiale, in questo caso il funzionariato pubblico.
Gli attacchi hanno avuto tre ragioni essenziali. Primo, la mia negazione argomentata della pertinenza attuale (in particolare in Italia, in cui la dissoluzione del comunismo ha comportato un’adesione totale al neoliberalismo ed all’impero USA sconosciuta nel resto d’Europa) della dicotomia Destra/Sinistra como criterio attuale di orientamento nella grandi questioni politiche, economiche, geopolitiche e culturali. Secondo, l’aver concesso interviste e collaborazioni a riviste e periodici considerati pregiudizialmente di « destra », fra cui le riviste in lingua francese di Alain de Benoist. Colgo l’occasione per dire che non considero le riviste di de Benoist di « destra », ma le considero anzi riviste di critica all’ attuale evoluzione « mercatistica » della destra. Dovessi definirle in una parola, le definirei « riviste critiche ad apertura di cento ed ottenta gradi ». Terzo, l’aver pubblicato alcuni libri senza aver fatto nessuna distinzione fra editori considerati di « sinistra » (Bollati Boringhieri, Citta’del Sole) ed editori considerati di « destra » (Settimo Sigillo, All’insegna del Veltro). Sapete bene come è difficile pubblicare se si è al di fuori di circuiti universitari o politici « protetti ». Io ho sempre e solo chiesto due cose : nessuna richiesta di denaro per la pubblicazione, e nessuna censura esplicita o implicita. Mi sembrava di avere, per così dire « giocato pulito ».
Così non è stato. In modo un pò ingenuo, pensavo che così come un giudice si esprime con le sue sentenze, ed un medico con i suoi referti e le sue diagnosi, nello stesso modo un filosofo si esprime con le sue posizioni, del tutto indipendentemente del colore della copertina del libro in cui queste posizioni sono espresse. Ovviamente così non è. Nel mondo manipolato della paranoia politica ed identitaria di appartenenza tribale, le posizioni filosofiche non contano nulla, e solo il colore della copertina conta. Si tratta di un problema che non ha soluzione, perchè il problema stesso pretende di essere la sua soluzione, il che comporte un circolo vizioso. Io sono un pensatore certamente originale, ma anche molto modesto. Sono sicuro che se pensatori como Sartre o Althusser avessero pubblicato con editori considerati « impuri », sarebbero stati anche loro silenziati.
Il mio pensiero in breve è questo : la dicotomia Destra/Sinistra ha nel complesso espresso un insieme di vere contraddizioni politiche e sociali, grosso modo nei due secoli 1789-1989 ; questa dicotomia tende però a venir meno con l’ingresso in una nuova fase del capitalismo, che Hegel avrebbe definito « speculativa » e non piu dialettica, in cui la struttura delle classi antagonistiche c’è ancora, ma non può più essere connotata come conflitto fra una borghesia ed un proletariato nel vecchio senso del termine ; e pertanto, se è vero che ci troviamo in una inedita fase di un capitalismo assoluto postborghese e postproletario, e quindi anche politicamente postfascista e postcomunista, in cui si è rotta la vecchia alleanza fra intellettuali e salariati (Boltanski-Chiapello), allora è inevitabile che tutte le vecchie categorie politico-culturali dicotomiche vengano riscritte e ridifinite ; ma tutto questo è impedito, per ora, dal potere inerziale di rallentamento delle strutture istituzionali delle tre strutture di dominio (ceto politico di amministrazione sistemica privo di coscienza infelice; circo mediatico di manipolazioni spettacolare ; clero intelletuale universitario di filosofia e di scienze sociali) ; questo rallentamento non può durare per sempre, ma può durare ancore per tutto il corso della vita terrena di chi è oggi entrato nella terza età, e forse anche addirittura della seconda età. La genesi del mio pensiero deve essere ricostruita da altri, perchè ogni punto di vista autobiografico su se stessi è per definizione privo di credibilità. Ma se devo rispondere a ogni costo, direi che la genesi deve essere trovata in un processo di autocritica radicale interno al punto di vista rivoluzionario marxista di estrema sinistra cui ho aderito in gioventù, nei tre paesi in cui ho vissuto e di cui conosco bene la lingua e la situazione politica (Italia, francia, Grecia). Questa autocritica politica radicale, durata decenni, si è ovviamente accompagnata ad inevitabili delusioni esistenziali ed alla rottura, a volte tragica ed a volte comica, ma sempre tragicomica, di precedenti appartenenze e solidarità politiche e culturali. Ma qui la mia esperienza personale raggiunge l’esperienza dei membri della mia generazione politica, quella del quarantennio 1960-2000.
Cosa bisogna fare per tradurre politicamente la critica di questa dicotomia ? E’ noto che la principale difficoltà pratica e quotidiana sta nell’essere confusi e diffamati come « fascisti infiltrati » nel corpo della sacra vera sinistra politicamente corretta. Costoro non sono certamente i nemici principali, ovviamente, ma sono gli avversari diretti immediati che di fatto impediscono la comunicazione politica e la legittimazione culturale pubblica di questa posizione. A breve termine, sulla base di una valutazione realistica, priva di inutili lamentele, necessariamente impotenti, ritengo che purtroppo non siano ancora maturate le condizioni politico-culturali per il superamento di questo ostacolo. Vorrei ovviamente che non fosse così, ma per ora è così. Mi rendo perfettamente conto che ci si logora assai presto quando il novantacinque per cento dei propri sforzi deve essere concentrato a chiarire che non si è dei seguaci di Barbablù, Landru, il marchese di Sade e Jack lo Squar-tatore.
Così come l’illuminismo fu la precondizione culturale indispensable per la successiva formazione di organizzazioni politiche, nello stesso modo ritengo che sia necessario oggi un nuovo equivalente del vecchio illuminismo, che porti alla luce un nuovo scenario simbolico-filosofico, che faccia a poco a poco svanire non soltanto la dicotomia Destra/Sinistra, ma anche tutto il circo delle dicotomie che la accompagnano (Ateismo/Religione, Progresso/Conservazione, Borghesia/Proletariato nel vecchio significato del termine, Fascismo/Antifascismo, Comunismo/Anticomunismo, eccetera). Queste dicotomie, oggi, non sono semplici errori, ma si sono incorporate in strutture materiali di potere e di legittimazione. La forza d’inerzia di queste strutture parassitarie è enorme.
E tuttavia, questa non è una ragione per ritirarsi alla vita privata, o ad una simplice testimonianza culturale, pure, necessaria. Il « militante » di questa posizione deve, purtroppo, sapere che l’ostacolo simbolico della diffamazione sara’devastante. Eppure, se non fosse così, vorrebbe dire che la propria proposta è inocua ed irrilevante. Ma proprio perchè questa proposta non è innocua ed irrilevante, ma è potenzialmente esplosiva e dirompente, proprio per questo ci si può aspettare che il « vecchio mondo » simbolico lotti con le unghie e con i denti prima di scomparire.
R/Che significa essere « marxisti » oggi ? E che significato ha la tua posizione di « comunista critico » ?
Dichiararsi « comunista critico » è una tautologia, in quanto è impossibile non essere insieme comunista e critico nello stesso tempo. Come ha correttamente rilevato Emmanuel Renault, il pensiero di Marx si basa sull’idea di critica come suo fondamento essenziale, da cui (ma forse questo Renault non lo sostiene) deriva che la sua stessa pretesa di veritativita’ deriva di lì . Si tratta peraltro di quello che Kant chiama giudizio analitico, in cui il predicato è contenuto nel sogetto. Il comunista è critico come il corpo è esteso.
E allora –si dirà- come si spiega che storicamente la stragrande maggioranza dei comunisti reali (non quelli platonicamente ideali o weberiamente idealtipici) non sono stati critici, ma sono stati a-critici, e cioè dogmatici ? Lo stesso Marx lo spiega. Quando una teoria originariamente critica viene ideologicamente incorporata in strategie di legittimazione del potere, si innesta la falsa coscienza necessaria degli agenti storici, che viene « organizatta » in strutture amninistrative di potere. Si tratta di un fenomeno dialettico, che una simplice lettura della Fenomenologia dello Spirito di Hegel permette di concettualizzare. L’idea di critica si rovescia dialetticamente in ideologia di legittimazione, non appena la falsa coscienza necessaria degli agenti storici se ne impadronice, se la situazione storica oggettiva non consente una elaborazione comunitaria maggiormente adeguata alle possibilita’ storiche concrete.
Personalmente, più che un « marxista critico », io sono un marxista che cerca, quasi
sempre invano, di essere critico. A volte ci riesco, ed a volte invece no.
In quanto a cosa significa essere marxisti oggi, bisogna chiederlo ai vari marxisti ancora in attivita’. Io posso rispondere solo per me stesso, utilizzando necessariamente la paroletta « io », che lo srittore italiano Carlo Emilio Gadda definì una volta “il più odioso dei pronomi”. Per ragioni di spazio, sono costretto ad una estrema sinteticita’.
In primo luogo, sarei tentato spesso di seguire l’indicazione del mio defunto amico Jean-Marie Vincent, per cui la prima cosa che deve fare chi vuole ricollegarsi a Marx è “sbarazzarsi del marxismo”. Ma il contesto simbolico in cui mi trovo mi costringe controvoglia a rivendicare fieramente il mio marxismo come provocatorio segnale del mio rifiuto di unirmi alla pittoresco banda dei “pentiti del Sessantotto”. Non si tratta tanto del vecchio e glorioso épater le bourgeois, anche perchè nel frattempo il bourgeois si è fatto irreperibile ed ha interamente « libberalizzato » il suo potenziale di indignazione. Se ci dichiaramo marxisti con un post-borghese di oggi, egli risponderà come Sade: « Français, encore un effort ! ».
In secondo luogo, il modello di Marx resta sempre il solo ad unire una filosofia universalistica dell’ emancipazione con una teoria dei modi di produzione, e del modo di produzione capitalistico in particolare. Da Althusser, acetto la critica allo storicismo ed all’ economicismo, ma non certo dell’ umanesimo. Ritengo che quello di Marx sia un umanesimo rivoluzionario integrale. Non credo alle scienze della storia. Per me le sole scienze in senso proprio sono le scienze naturali. In modo scandaloso, ritengo che Marx sia il terzo ed ultimo grande esponente della filosofia tedesca, dopo Fichte e Hegel (per fare breve, ritengo Schelling un panteista romantico ed uno spinozista kantiano). Non penso affatto che Marx sia « materialista », a meno che si usi questo termine in senso metaforico, como triplice metafora di ateismo, di prassi e soprattutto di struttura contrapposta alla sovrastruttura. Ritengo addirittura Marx un pensatore tradizionalista, perchè si collega alla tradizione comunataria della filosofia europea, contrapposta alla innovazione individualistica ed atomistica moderna (Hobbes, Locke, Hume, Smith, e su Smith condivido l’approccio di Michéa). Considero Denis Collin uno dei pensatori marxisti francesi più interessanti, perchè ha avuto il corragio di criticare gli aspetti utopistici di Marx, simpatici ma errati, di fronte a cui in genere i « marxisti » si prosternano reverenti.
In poche parole, per essere veramente critici, e non solo critici apparenti e addomesticati, bisogna che la critica adotti quello che Descartes chiamava il dubbio iperbolico. Accontentarsi del vecchio e noioso dubbio metodico è da uscieri della filosofia. In una parola, ecco la mia definizione di marxista critico : colui che, fedele all’anticapitalismo radicale di Marx, estende la sua critica al livello del dubbio iperbolico, senza farsi spaventare dal potere inerziale delle posizioni errate consolidatesi in più di un secolo (e per errate, intendo errate soprattutto per storicismo e/o per utopismo). Il resto deve essere consegnato al dibattito. Che però, non è di fatto ancora neppure cominciato, nonostante alcuni coraggiosi pionieri (me ne viene in mente uno, il mio fefunto amico Georges Labica).
R/ Quali sono gli assi principali della tua critica al capitalismo ? Possiamo dire che la crisi attuale del capitalismo rende legittimo un progette comunista di superamento di quest’ultimo ?
Vorrei iniziare con due osservazioni preliminari, prima di affrontare la parte essenziale della tua domanda.
In primo luogo, non penso che esista qualcosa chiamato un « progetto comunista per il superamento del capitalismo ». Su questo punto resto fedele all’impostazione di Marx, che non credeva alla progettualità comunista, ritenendola una formulazione utopica. Il comunismo, ammesso che sia possibile (come peraltro io credo), ed ammesso che possiamo trovarci d’accordo anche solo sulle linee generali del suo profilo storico, economico, politico e culturale (il che, ovviamente, è ancora tutto da verificare), non è a mio avviso un progetto, ma è piuttosto un insieme di precondizioni economiche, sociali, e soprattutto culturali, che non mi sembrano affatto ancora maturate per ora, sulla basa delle quali poi gli agenti sociali concreti possono eventualmente innestare delle pratiche di superamento della sintesi sociali capitalistica. Spero che apprezzerai questa mia cautela definitoria. Il difetto dei gruppi comunisti di estrema sinistra è appunto quello, a mio avviso, di presentarsi davanti a militanti ed elettori con una sorta di « progetto », che si tratterebe ovviamente di applicare. Ma il comunismo non è mai un progetto da applicare. Se è un progetto, allora assomiglia come una goccia d’acqua al comunismo storico novecentesco recentemente defunto (1917-1991), che era appunto un progetto di ingegneria sociale dispotico-egualitaria sotto cupola geodesica protetta (l’espresisione è di Jameson). Si tratta di una concezione positivistica che trova la sua origine non in Karl Marx, ma in Auguste Comte. Nulla di male, ovviamente, purchè se ne sia pienamente consapevoli. Quindi, anzichè ripromettersi un impossibile « progetto » (già Spinoza metteva in guardia del concepire Dio come un soggetto che progetta la costruzione del mondo naturale e morale), cerchiamo invece di costruire le condizioni culturali e sociali all’interno delle quali, senza nessuna onnipotenza progettuale, i soggetti individuali e sociali possano esplicare le loro potenzialità (sempre in senso spinoziano : in Francia, avete la fortuna di avere eccelenti commentatori di Spinoza, come il mio amico André Tosel).
In secondo luogo, penso sia un errore collegare troppo frettolosamente le possibilittà di revoluzione anticapitalista con l’insorgere di una crisi strutturale del capitalismo stesso (come credo che sia quella in corso, scoppiata circa un anno fa). Due grandi precedenti storici non sono rassicuranti. La grande crisi capitalistica chiamata « grande depressione » del 1873-1896 ha dato luogo al periodo più controrivoluzionario della storia contemporanea (colonialismo, razzismo, imperialismo, antisemitismo, eccetera). Se poi passiamo alla grande crisi del 1929, essa ha dato luogo ad un periodo di controrivoluzioni, fascismo e guerre. Il comunismo storicamente costituitosi in Europa dopo il 1945 (non solo nei paesi dell’Est, ma anche in Italia ed in Francia), non è stato un prodotto della crisi economica, ma è stato un prodotto esclusivo delle vittorie militari dell’URSS. Quindi, anche se lo spazio non mi permette di approfondire il tema, considero incauto investire eccessive speranze anticapitalistiche sulla esistenza di una crisi capitalistica, sia pur grave e strutturale.
L’asse principale della mia critica al capitalismo si basa certamente anche sullo scandalo morale della diseguaglianza crescente e sullo scandalo culturale della manipolazione mediatica e della degradazione antropologica dei sudditi dell’individualismo assoluto, ma ammetto che questi non sono per me i due elementi filosofici fondamentali. L’alienazione ed il feticismo della merce sono cattivi, ma si è sempre potuto in qualche modo convivere con essi. Il problema fondamentale per me sta nella dinamica di sviluppo illimitado della produzione capitalistica, ed il fatto che l’infinito-illimitato (in greco antico apeiron, come nel frammento di Anassimandro) è il principale fattore di disagregazione e di dissoluzione di qualunque forma di vita comunitaria. D’altronde, io interpreto la stessa dinamica della filosofia greca classica come uno scontro fra l’elemento comunitario e l’elemento privato, più specificamente nella lotta fra classi subalterne che aspirano a savalguardare la coesione sociale ed economica della comunità, e classi superiori che mirano a dissolvere i legami comunitari, liberandosi dalle pendenze economiche verso la comunità, ed aprendo così le porte all’accumulazione crematistica, di cui Aristotele formulò già una critica radicale che non ha nulla da invidiare a quella che poi in diverso contesto formulò Marx (e si veda in proposito l’insuperata formulazione di Karl Polanyi).
Vorrei insistere molto su questo riferimento ai greci, perchè questo riferimento non viene fatto par arcaismo o erudizione, ma perchè la mia interpretazione di Marx ne viene direttamente influenzata. L’errore principale che si fa in genere sul comunismo è quello di ritenere che il comunismo sia una sorta di « affare privato » delle contradizioni specifiche del solo modo di produzione capitalistico, anzichè essere invece la specifica forma moderna (moderna= capitalistica) di una corrente della storia universale molto più profonda e di lunga durata, quella della opposizione sempre riemergente fra tendenza aggregativo-comunitaria-solidaristica degli uomini e tendenza individualistico-dissolutiva-privatistica di essi.
Questa, almeno, è la mia specifica concezione di comunismo. Da qui deriva, paradossalmente (ma è un paradosso di cui sono ben cosciente, e d’altronde Rousseau diceva già che fra paradosso e pregiudizio bisogna scegliere il paradossa) che Marx non solo è stato un filosofo idealista tedesco classico, ma è anche stato un grande pensatore tradizionalista classico, perchè ha simplicemente ridefinito e riformulato la tradizione comunitaria ed anti-individualistica (gia’fondata nei tempi antichi da Aristotele, e poi rinnovata e riproposta da Hegel in epoca moderna), in opposizione radicale con la novita’individualistica del capitalismo robinsoniano inglese, distruttrice di ogni fondazione comunitaria della societa’, fondazione che Locke metaforizzò sotto il termine di « sostanza » (ciò che sta sotto, appunto), e di cui Locke proclamò l’inesistenza, in quanto nella sua concezione la società, privata di ogni sostanza (metafora della comunità) veniva ridefinita in termine di rete di rapporti mercantili individuali. Hume completò l’opera sulla base della autofondazione integrale economica della’societa sull’abitudine allo scambio, eliminando ogni riferimento filosofico (il diritto naturale), ed ogni riferimento politico (il contratto sociale). Michéa ha completamente ragione nel dire che la contraddizione della « sinistra » sta nel negare le conseguenze del modello di Smith accettandone però i presupposti filosofici ed antropologici.
Il discurso sarebbe lungo, e devo qui interromperlo per ragioni di spazio. Ma ritengo sia gia’ chiaro che sono il portatore di una immagine radicalmente nuova di Marx e delle ragioni di fondo che legittimano una critica al capitalismo dopo l’insuccesso dell’esperimento del comunismo storico novecentesco realmente esistito, e dopo la scoperte delle aporie del modello originale utopico-scientifico di Marx (l’ossimoro ovviamente non è frutto di distrazione, ma è assolumente voluto ed intenzionale).
R/Ti interessi alla geopolitica e pensi che quest’ultima possa essere uno strumento utile ad una teoria critica del capitalismo ?
All’interno dell’universo simbolico autoreferenziale del profilo culturale della sinistra politicamente corretta, la geopolitica è considerata a priori di destra in quanto tale, indipendamente dalle sue differenti scuole e dalle sue diverse proposte. Questo fatto, apparentemente incomprensibile (la sinistra ha infatti nel suo pedigree maestri molto « realisti », da Machiavelli a Marx a Lenin) è dovuta ad una recente evoluzione della sinistra stessa dal realismo al moralismo, più esattamente dal relismo strategico al moralismo testimoniale programmaticamente e quasi voluttuosamente impotente. Questo fascino dell’impotenza moralistica testimoniale ha molte radici genetiche, fra cui le principali sono due. Primo, l’elaborazione del senso di colpa per gli aspetti eccessivamente « realistici » del comunismo storico novecentesco di recente defunto (realismi di Stalin, Mao, eccetera), che comporta un rovesciamento dialettico della violenza rivoluzionaria in moralismo testimoniale programmaticamente impotente. Secondo, il senso di impotenza progettuale dovoto al sovrastare minaccioso di una sorta di Dispositivo tecnico-economico intransformabile (il Gestell di Heidegger, l’Orrore Economico della Forrester, eccetera).
La geopolitica, ovviamente, no è né di destra né di sinistra, e fu sempre pratica da tutti, da de Gaulle a Roosevelt, da Hitler a Stalin. Il fatto di occuparsene, ovviamente, rappresente già un simbolico atto di resistenza intellettuale verso chi vorrebbe imporci una posizione puramente moralistico-testimoniale di condanna di ogni « realismo » in quanto tale. Mentre a suo tempo Marx cercò di andare oltre Hegel (se ci sia riuscito o meno, non può essere discusso qui per ragioni di spazio), la sinistra vorrebbe addirittura seppellire le critiche di Hegel alla cosiddetta « anima bella ».
La versione meno peggiore della geopolitica oggi presente sul mercato è quella detta euroasiatico. Per me questo non comporta affatto un’adesione ad una mistica euroasiatistica, che unisce la vecchia slavofilia all’idealizzazione dell’impero mongolo. Si tratta di una pura geopolitica di defesa europea dalla sua incorporazione nell’impero USA (Sapir, Todd, Samir Amin, eccetera). Ma indubbiamente Sarkozy e la Merkel remano contro, e quindi per ora il progetto (De Grossouvre, eccetera) non sembra attuale. Peccato, perchè personalmente lo condivido nell’essenziale.
R/ In questi ultimi tempi si è sviluppata quella che è stata definita come “Obamania”. In che modo analizzi questa nuova mania mediatica ? In modo più approfondito, ci vedi forse una nuova tattica dalla politica degli Stati Uniti ?
Non credo personalmente alla leggenda metropolitana cui Obama sarebe stato votato dagli americani espressamente per una operazione internazionale di lifting d’immagine, rivolta al resto del mondo ormai indignato per la politica e le idee di Bush. Gli americani sono il popolo più culturalmente introvertito del mondo, e comme tutti i popoli imperiali ed autoreferenziali, dotati di una ideologia messianica di « destino manifesto » su basi bibliche e veterotestamentarie (che fanno da base simbolica anche al loro appoggio integrale al sionismo), « se ne fregano » completamente di quello che il resto del mondo pensa. Votano a partire da se stessi, e dalla loro situazione economica. Ritengo che le cause della vittoria di Obama siano tutte interne agli USA, e derivino dello scoppio della grande crisi dell’estate 2008. I repubblicani avevano condotto la politica economica più oligarchica e disegualitaria dalla dichiarazione di indipendenza del 1776, e si è formata quindi un’alleanza sociologica ed elettorale fra lavoratori e parte bassa della classe media (lower middle class). Negli USA, credo che Obama sia questo, e solo questo. Chi si fa illusioni su di un cambiamento strategico nell’esposizione imperiale e geopolitica USA, credo che resterà presto deluso. La strategia imperiale USA è al di sopra di ogni pur importante cambio di immagine e di classe politico.
Questo, però, è Obama. L’obamania, invece, è un fenomeno europeo, fortemente pilotato dalla manipulazione mediatica, particolarmente televisiva. Il circo mediatico è certamente spinto da logiche interne di spettacolarizzazione, ormai fortemente autonomizzate dalla stessa committenza diretta politica ed economica. Gli europei sono diventati come i sudditi provinciali dell’impero romano. Una volta morto Vercingetorige, strangolato in un carcere romano (sorte molto simile a quella di Saddam e di Milosevic), i sudditti provinciali danno il dominio di Roma per scontato, e simplecemente auspicano che Marco Aurelo sostituisca Nerone. L’obamania, in poche parole, è un fenomeno culturale ispirato dalla volonta’europea di servilismo verso l’imperatore negro buono che sostituisce l’imperatore bianco cattivo, e anche dalla speranza degli intellettuali di sinistra che l’impero diventi « multilaterale » partendo da se stesso, e cioè dall’alto.
Nulla di male. C’è anche chi crede al crezionismo ed alla terra piatta. Ma prima o poi anche il bambino più ingenuo dovrà diventare adulto.
R/ Certi vedono svilupparsi con speranza l’esperienza bolivariana in Venezuela di Chavez. Cosa pensi di questo progetto « socializzante » ? Ha una sua originalità ?
Seguo ovviamente con partecipazione, solidarietà, interesse e speranza l’esperienza bolivariana del Venezuela, di cui apoggio completa-mente sia il solidarismo popolare sia la politica di independenza dagli USA. Questo è ovvio, e non richiede ulteriori specificazioni. Metto però in guardia del ricadere in un vecchio vizietto europeo, l’esotismo rivoluzionario latino-americano di compensazione per la propria pittoresca e protratta impotenza. L’esotismo cinese comportava cinque anni di studio di ideogrammi e di monosillabi diversamente pronunciati, mentre l’esotismo latino-americano appare più a portata di mano, in quanto comporta un semplice corso di tre mesi di spagnolo in un ambiente di « immersione totale ». Il povero Ernesto Che Guevara è diventato un icona pop dell’estetica post-moderna, e certamente non lo avrebbe voluto e meritato. I paesi andini hanno il problema della valorizzazione politica e culturale degli indios, situazione assolutamente non-europea anche se ideale per i viaggiatori politici europei. Se i portoghesi sono brasiliani tristi ed introversi, i brasiliani sono portoghesi allegri ed estroversi, ed io considero il Brasile in prospettiva il paese più interessante per noi europei. Tuttavia, non ho alcuna fiducia nel sindicalismo (vedi Lula), che considero un fenomeno politico poco interessante, a differenza del populismo carismatico (vedi Chavez), che è molto più interessante ed adatto alla cultura politica latino-americana (vedi le analisi di Buela, che condivido). Il populismo ha però un difetto, è cioè che si mantiene soltanto e fino a quando il caudillo popular è vivo ed in buona salute. Certo, meglio il populismo carismatico del partito unico di tipo comunista, data l’esperienza storica dell’ultimo secolo, ma questo non risolve la questione.
Chavez non è interessante per la sua cultura politica, che ripete vecchi modelli del populismo rivoluzionario anti-imperialista latino-americano (che personalmente ho gia’sentito negli stessi termini da studenti latino-americani di sinistra nella Parigi degli anni sessanta), ma per la funziona storica ogettiva che esercita. Dio lo benedica e lo conservi a lungo ! Economia mista, partecipazione popolare, rinuncia alla stupido « ateismo scientifico », collegamento alla tradizioni bolivariste (del resto, anche Guevara era un bolivarista). Tutto bene, finchè il prezzo del petrolio è alto. Chavez non è importante perchè è un modello, o perchè regala libri ad Obama. Chavez è importante semplicimente perchè esiste. Ed è già molto.
R/ Quale è la tua posizione sulla costruzione europea ? In Francia, i « sovra-nisti » respingono ogni idea di progetto politico europeo sovranazionale. Come ti situi in rapporto a questo dibattito? Pensi che sia possibile concepire un so-cialismo europeo ? Ed avrebbe allora una sua specificità ?
I « sovranisti » francesi, che trovano nell’essenziale la mia appro-vazione e la mia solidarietà (sono qui in disaccordo con il caro amico De Benoist), rappresentano una versione di sinistra del gaullismo. Sono quindi un fenomeno quasi esclusivamente francese, in quanto fuori della Francia un vero gaullismo non è di fatto mai esistito. Io do di fatto un giudizio moderatamente positivo del gaullismo, al di là del suo profilo culturale conservatore (che ovviamente non è il mio), in quanto vedo l’aspetto principale della contraddizione europea (come vedete uso il linguaggio di Mao) nell’indipendenza dell’Europea dagli USA, e questo aspetto principale condiziona anche l’aspetto principale (per ora non lo è ancora) soltanto quando il primo aspetto verra’ risolto, e l’ultima base militare USA dovra’ abbandonare l’Europa. Nessuna democrazia ateniese può esistere con una guarnigione persiana o spartana sull’Acropoli. Sebbene io sia un ellenista, non c’è bisogno di essere ellenisti per capirlo.
L’Italia è un paese del tutto privo di aspirazione alla sovranita’nazionale (non ho qui lo spazio per mostrarne le cause, che si riassumono nel fatto che il fascismo ha trascinato nella sua meritata sconfitta anche la sovranità nazionale), per cui l’Italia non è un pays pauvre, ma è un pauvre pays. Triste, ma non privo di dolorosa verità.
L’Europa, a moi avviso, non è una nazione. Se pensassi che lo fosse, e che lo può diventare in tempi non biblici, sarei un europeista convinto. Ma non vedo perchè devo pensare di essere compatriota dei finlandesi, e non dei tunisini, degli estoni, e non degli egiziani. Mi basterebbe una bella confederazione di stati-nazione in Europa, magari aggiungendone pacificamente qualcuno per autodeterminazione (i baschi, ad esempio, che secondo me meritano un loro stato-nazione). In quanto ad un modello di socialismo europeo possibile (impossibile ovviamente con la NATO e le basi USA), esso non potrebbe che essere caratterizzato da un comunitarismo democratico, con la più completa libertà di espressione e di organizzazione politica costituzionalmente garantita. Roba, però, che appartiene al futuro. Per adesso, avrei votato « no » alla costituzione europea, come ha fatto un’intelligente maggioranza di francesi.
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