18/12/2009
Il pensiero ribelle di Alain De Benoist
Quella che segue è la traduzione integrale per Diorama Letterario di un’intervista pubblicata sul numero di settembre-ottobre 2007 della rivista “Rébellion”.
Rébellion – L’identità è al centro di un notevole saggio che Lei ha pubblicato recentemente [Nous et les autres, Krisis 2006]. Perché questo argomento si è fatto così scottante oggigiorno? Come si può concepire un nuovo modello comunitario che non sia un ritorno all’arcaismo?
Alain de Benoist – Il vasto movimento della modernità è stato sorretto dall’ideologia dell’Identico, cioè dall’idea, espressa in diverse forme, che le differenze tra gli uomini siano solo contingenti e transitorie. Il risultato è stato la progressiva crescita di un fenomeno di indistinzione che si è tradotto in una forte erosione delle identità, sia individuali che collettive, fenomeno che oggi trova il suo culmine, dato che adesso si sente dire un po’ ovunque che “non ci sono più punti di riferimento”. Le rivendicazioni identitarie che vediamo fiorire attualmente, anch’esse un po’ ovunque, sono un’evidente reazione contro questa cancellazione dei punti di riferimento. Qualunque sia la forma attorno alla quale si ordinano – identità oggettive o soggettive, reali o fantasmatiche –, esse costituiscono uno dei tratti più significativi del nostro tempo (prima si è rivendicata la libertà, poi l’eguaglianza, poi l’identità), e nel contempo confermano una realtà paradossale: si comincia a porsi domande sull’identità solo nel momento in cui questa minaccia di scomparire o è già scomparsa.
Il problema è che tutti parlano d’identità, ma assai pochi si sobbarcano la fatica di dire quale interpretazione danno di questa parola. E da ciò nascono innumerevoli equivoci e confusioni. Nel mio libro Nous et les autres mi sono perciò proposto di riprendere da capo un lavoro di definizione. Prima di tutto ho cercato di mostrare per quali ragioni l’identità fosse una dimensione essenziale, costitutiva del sé, della presenza umana nel mondo. Ma mi sono altresì proposto di mettere sotto accusa talune concezioni ingannevoli, che a volte conducono a una vera e propria patologia dell’identità (questo accade quando l’appartenenza viene confusa con la verità). Per me l’identità non è un’essenza unidimensionale, bensì una sostanza plurale che si trasforma di continuo: non definisce quel che non cambia mai, ma quel che costituisce il nostro particolare modo di cambiare. Non può enunciarsi unicamente da sola, ma reclama per definizione una relazione con l’altro: ogni soggetto ha bisogno di un altro (non di un altro se stesso, ma di un altro che differisce da lui) per costituirsi, ed è per questa caratteristica che tutte le identità sono dialogiche. In fin dei conti, l’identità è una narrazione di sé destinata a strutturare l’immaginario simbolico – questo universo oggi minacciato dal dilagare dei valori mercantili.
Il suo intervento nel dibattito sulla decrescita ha provocato l’isteria di alcuni sostenitori di quest’ultima. Come spiegare il successo di questa idea? È davvero pertinente o si rivela come una nuova ubbia nata dalla corrente altermondialista?
Dato che stiamo trattando di un’idea così rivoluzionaria qual è la decrescita, a mio parere è ancora decisamente troppo presto per parlare di “successo”. Limitiamoci a dire che questa idea oggi sta aprendosi la strada nelle menti, nella misura in cui si espandono le preoccupazioni ecologiche e fa la sua comparsa con maggiore chiarezza l’impostura di qualunque riformismo in questo ambito. La teoria parte dalla semplicissima constatazione che una crescita infinita è impossibile in un mondo finito. Questa semplice constatazione, quando è formulata in maniera imperativa o normativa, contraddice frontalmente un altro grande vettore della modernità, ovvero l’ideologia del progresso. Questa ideologia, di cui Georges Sorel aveva ben colto il carattere essenzialmente “borghese”, pretende che la storia sia orientata verso il meglio, che il domani sarà sempre migliore, che l’accaparramento della Terra possa proseguire indefinitamente, che sia del tutto naturale produrre sempre di più onde consumare sempre di più, eccetera. Affermazioni di questo tipo oggi non sono più credibili. Sappiamo che le riserve naturali, a partire dalle riserve energetiche, non sono inesauribili. Vediamo moltiplicarsi ed intensificarsi le sregolatezze climatiche. Sappiamo anche che il saccheggio del pianeta rischia di raggiungere un livello irreversibile. In tutti i campi ci sono dei limiti. Tener conto di tali limiti porta a capire che a volte è necessario dire “è abbastanza” invece che “ancora di più!”. Resta però molto da fare. Continua a regnare una certa confusione intorno alle modalità di una possibile decrescita – di una “decrescita sostenibile” –, che non può essere confusa con un ritorno indietro o, peggio ancora, con la fine della storia. I sostenitori della decrescita, che non si riducono ai pochi isterici ai quali Lei alludeva nella domanda, devono fronteggiare le critiche congiunte di una sinistra erede del cartesianesimo e dell’illuminismo, che ha costantemente difeso il produttivismo, e di una destra liberale, acquisita da tempo all’assiomatica dell’interesse, che non sogna altro che l’espansione planetaria del sistema del profitto. Mettere in discussione l’idea di crescita indefinita significa mettere in discussione il fondamento stesso, se non la ragion d’essere, delle società “sviluppate” sul modello occidentale. Per questo motivo ci vorrà tempo prima che si insedi stabilmente nelle menti. La “pedagogia delle catastrofi”, da questo punto di vista, non può essere che un coadiuvante. L’opera più urgente va svolta a livello delle idee. Come ha detto innumerevoli volte Serge Latouche, si tratta di “decolonizzare l’immaginario” abituando i nostri contemporanei a relativizzare l’importanza dell’economia e a non lasciare più che i valori mercantili governino integralmente il sistema dei desideri e dei bisogni.
Lei ha prefato di recente la riedizione del libro di Edouard Berth Les méfaits des intellectuels, mentre la rivista “Éléments” pubblica in questi giorni un dossier sulla storia del socialismo francese. Perché questo interesse per una corrente rivoluzionaria a lungo dimenticata? Le sembra auspicabile un’alternativa socialista, fedele a quei valori, che fosse capace di apportare risposte nuove alle sfide del nostro tempo?
È evidente. In un momento in cui la destra si confonde più che mai con il sistema del denaro, mentre la maggior parte dei partiti “di sinistra” non esitano ormai più a vantare i meriti del mercato, mi è sembrato importante “rivisitare” alcune delle grandi correnti del socialismo francese, cominciando con la più interessante fra di esse, il sindacalismo rivoluzionario, di cui Georges Sorel, Edouard Berth e Hubert Lagardelle furono i teorici e le cui tesi, sostenute da Victor Griffuelhes e da Emile Pouget, trionfarono per qualche tempo all’interno della CGT, all’epoca della famosa “carta di Amiens”. Non per vana nostalgia, beninteso, perché le condizioni di esistenza dei lavoratori sono oggi ben diverse da quelle che erano alla fine del XIX secolo, ma perché vi sono molte lezioni da trarre – a condizione di non cadere nell’interpretazione anacronistica o nell’idealizzazione romantica – dallo studio di quel potente movimento socialista e operaio che, quando lo si guarda da vicino, sfugge alla maggior parte delle divisioni che oggi conosciamo. Ho parlato del sindacalismo rivoluzionario, ma la rilettura di Proudhon, Blanqui, ma si impone altrettanto la lettura di Proudhon, Blanqui, Vallès, Pierre Leroux, Benoît Malon, eccetera. Nel corso degli ultimi anni, nei suoi scritti Lei ha spesso affrontato l’opera di Karl Marx. Come considera, nella sua riflessione, l’apporto del filosofo tedesco? Quale attualità ha a suo avviso l’analisi marxiana? Un’attualità indiscutibile. Anche se bisogna leggerlo senza la devozione de marxisti ortodossi o la malafede degli “antimarxisti” di professione che, senza averlo mai letto, si limitano a presentarlo ridicolmente come il“precursore del Gulag”. Andiamo all’essenziale. Marx non è solamente stato uno dei primi a spiegare in modo convincente come il capitalismo organizza l’espropriazione dei produttori sulla quale si fonda; è stato soprattutto colui che, in maniera davvero geniale, ha capito che il sistema capitalistico era un sistema antropologico – quella che io stesso chiamo la Forma-Capitale – ancor più che un sistema puramente economico. Le pagine insuperabili che ha dedicato al “feticismo delle merci”, a partire dalle quali György Lukács ha potuto formulare nel 1923 il concetto di “reificazione” (Verdinglichung), illustrano perfettamente il modo in cui l’appropriazione della Terra da parte del Capitale introduce una vera “cosificazione” dei rapporti sociali, in cui l’uomo non è soltanto assoggettato alla merce, ma si trasforma lui stesso in merce. Questo dispositivo di mostruosa appropriazione ricorda in qualche misura ciò che Heidegger ha scritto a proposito del Gestell, come sistema di fuga in avanti nell’illimitato.
Indubbiamente Marx commette l’errore di sopravvalutare la sola economia, il che lo porta ad attendersi la salvezza dall’avvento di un’altra forma di organizzazione economica, invece di mettere in discussione la stessa economia intesa come valore (è un punto su cui, attraverso Ricardo, rimane dipendente dalla scuola classica). Così come vuole liberare il lavoro, laddove sarebbe stato necessario prospettare l’ipotesi di liberarsi dal lavoro. Egli sviluppa una filosofia lineare della storia che non è altro che una trasposizione profana dello storicismo cristiano. Sottolinea giustamente la realtà delle lotte di classe (che la destra si è sempre intestardita a non riconoscere), ma ha il torto di farne il solo ed unico motore della storia umana. Ha capito benissimo che la borghesia detentrice del capitale – a cui credito mette la liquidazione del sistema feudale, perché in ciò vede una premessa indispensabile all’avvento di una società senza classi – trova nell’accumulo di quel capitale la fonte del proprio potere, e che le forze produttive si sviluppano nel solco del suo dominio di classe. Ha avuto però il torto di attribuire alla borghesia esclusivamente il carattere di classe detentrice dei mezzi di produzione, senza accorgersi che essa era anche e soprattutto portatrice di nuovi valori.
Ciò che egli dice delle “contraddizioni” interne del capitalismo può essere criticato alla luce della storia effettivamente avvenuta. Marx crede un po’ ingenuamente che lo sfruttamento di cui il proletariato è vittima sarà sufficiente per far nascere una coscienza di classe che il partito comunista saprà orientare nel senso della rivoluzione (“la borghesia produce i suoi stessi becchini”). Pensa che quello sfruttamento crescerà sempre nello stesso modo, senza rendersi conto che l’aumento dei salari, che trasforma i produttori in consumatori, consentirà anche al capitale di accrescere i suoi profitti (a che serve aumentare incessantemente la produzione se non c’è nessuno per acquistarla?). Allo stesso modo, pensa che il peso crescente del capitale fisso (“costante”) ridurrà inesorabilmente la componente dello sfruttamento diretto dei proletari nel valore della merce, e da ciò deduce la sua teoria del calo tendenziale del tasso di profitto. Orbene: grazie ai progressi tecnici e agli aumenti di produttività, il peso del capitale fisso non ha soffocato il profitto, perché l’accumulazione ha trovato sinora nuovi ambiti in cui dispiegarsi. Il che peraltro non vuol dire che la teoria del calo tendenziale del tasso di profitto sia completamente da abbandonare, perché le imprese oggi tendono a perdere anche su mercati stagnanti, o soggetti a una concorrenza selvaggia, quel che guadagnano graziealla compressione dei salari.
Lei diceva un istante fa che le condizioni di esistenza dei lavoratori sono oggi assai diverse da quelle che erano alla fine del XIX secolo. Vuole con ciò dire che oggi non esiste più una classe operaia? Né classi sociali?
Ci sono sempre delle classi sociali, e la classe operaia continua a rappresentare in Francia circa sei milioni di persone. (Si noti, in compenso, che negli anni Sessanta c’erano ancora all’Assemblea nazionale un centinaio di ex operai fra i deputati, mentre oggi sono solo tre o quattro). Ma per esistere in quanto classe non basta esistere “in sé”. Bisogna anche esistere “per sé”. A scomparire non sono state le classi sociali, ma la cultura di classe e lo spirito di classe.
Il “genio” del capitalismo moderno è consistito nel frammentare tutte le categorie sociali “pericolose” attraverso nuove divisioni, per lui inoffensive. Viviamo in una società che è nel contempo sempre più frammentata eppure sempre più omogenea nelle aspirazioni e nei valori. Vi è stata un’epoca, non così lontana, in cui ogni ambiente sociale aveva il proprio modo di vedere il mondo, la propria cultura, a volte persino la propria lingua. La vita moderna ha soppresso tutto ciò. Il compromesso fordista si è tradotto in un imborghesimento generalizzato. Tutti vogliono più o meno le stesse cose, soltanto con più o meno mezzi per procurarsele. I figli della classe borghese hanno le stesse occupazioni del tempo libero di quelli della classe operaia. Vedono gli stessi films, ascoltano le stesse canzoni, hanno le stesse distrazioni, vogliono andare in vacanza negli stessi posti, frequentano gli stessi locali e via dicendo. Tutti amano Johnny Halliday, il rap, i programmi dei disk-jockeys, la Star Academy, Harry Potter e le play-stations. Anche qui, l’unica distinzione è causata dai soldi: si ha più o meno denaro da spendere, ma lo si spende nello stesso modo. Esiste sempre meno una cultura caratteristica delle classi popolari, perché l’immaginario simbolico dell’intera società è stato convertito ai valori mercantili. Il modello antropologico liberale (l’uomo non è che un produttore-consumatore il cui comportamento normale consiste nel cercare sempre di massimizzare il proprio interesse pur impegnandosi nel consumare sempre di più) si è imposto nelle menti. La mimesi sociale e la logica del profitto hanno fatto il resto. Nell’era del capitalismo cognitivo e dell’economia “immateriale” dell’onnipotenza dei mercati finanziari e della dittatura degli azionisti, il pianeta si trasforma in un unico mercato, nel quale il capitale dispiega a piacimento le sue strategie.
Anche l’individualizzazione dei comportamenti e la crisi generalizzata delle strutture istituzionali (partiti, sindacati, chiese) svolgono però un loro ruolo. Nessuno ragiona più in funzione di un progetto collettivo che nteressi la società globale. Le infermiere, gli insegnanti, i precari dello spettacolo manifestano per difendere le proprie condizioni di lavoro, ma la loro protesta non si estende mai ai lavoratori in generale. Manifestano esclusivamente per se stessi e smettono di mobilitarsi nel momento stesso in cui le loro rivendicazioni sono state più o meno soddisfatte. Anche i salariati vittime di un licenziamento arbitrario, di una delocalizzazione selvaggia o di un fallimento si mobilitano in maniera puntuale, senza mai manifestare solidarietà con il mondo del lavoro in generale.
Che significato dà esattamente all’espressione “classi popolari”?
Oggigiorno, le classi popolari non si riassumono più nella classe operaia. Esse, che ieri erano principalmente costituite da operai dell’industria, ma anche da contadini poveri (vivevamo ancora in una cultura rurale), oggi comprendono anche impiegati dei servizi, salariati del commercio, piccoli impiegati, personale badante, un proletariato del terziario disperso e privo di tradizioni di lotta, eccetera. Quindi non sono più omogenee. Vi sono forti differenze – addirittura più forti di trent’anni fa – tra coloro che pagano un affitto e quelli che sono riusciti a diventare proprietari di una casetta, tra gli urbani e i rurali (gli ultimi), i salariati del settoreprivato e quelli del settore pubblico, e così via. Ma i punti in comune rimangono più numerosi di quanto non si dica. Le classi particolari si caratterizzano in particolare per le piccole dimensioni del loro status sociale e professionale, per una minore sicurezza economica, eventualmente (ma non sempre) per una tendenza alla precarietà, per una certa lontananza da quello che Bourdieu chiamava il “capitale culturale”, vale a dire le risorse culturali socialmente vantaggiose.
Robert Castel non ha torto nel criticare la rappresentazione della società secondo uno schema dualistico che contrappone sommariamente da un lato un’ampia maggioranza di classi medie e dall’altro l’insieme dei poveri, dei precari e degli esclusi. Le classi popolari si distinguono in realtà sia dalle une che dagli altri. Da questo punto di vista, l’indiscutibile spostamento verso le classi medie indotto dal compromesso fordista è stato sicuramente sopravvalutato. Numerose opere pubblicate fino all’incirca la metà degli anni Novanta si sono impegnate nel descrivere la “medianizzazione” della società francese per effetto del consumo di massa, della diffusione dell’educazione pubblica (di fatto, assai spesso, una semi-acculturazione alla cultura scolastica), del fiorire dei servizi, eccetera. La credenza in questa “medianizzazione” è uno dei fattori chespiegano il modo in cui i partiti di sinistra si sono progressivamente separati dal popolo. Il movimento degli scioperi del 1995, i risultati realizzati dal Front national presso le classi popolari e, soprattutto, lo smacco di Lionel Jospin alle elezioni presidenziali del 2002 hanno condotto gli specialisti ad osservare la questione più da vicino. Il che li ha portati a riscoprire il peso demografico e sociologico di categorie che si erano date un po’ frettolosamente per scomparse.
Un altro errore, ben denunciato da Annie Collovald, consiste nel rappresentare le classi popolari come ambienti votati, adesso che il comunismo è scomparso, a lasciarsi sedurre dalle sirene del “populismo”. In questa ottica, il “populismo” serve da comodo spauracchio per screditare le classi popolari, descritte come particolarmente permeabili alle idee semplicistiche, xenofobe e autoritarie, e per legittimare la frattura esistente tra i grandi partiti “di governo” e il popolo. I sondaggi mostrano che, in realtà, il Front National nel corso degli ultimi vent’anni ha raggiunto un duplice elettorato, nel contempo popolare e piccolo-borghese, e che è stato soprattutto il suo elettorato piccolo-borghese (che alle ultime elezioni presidenziali si è spostato in massa su Nicolas Sarkozy) a trarre lauti profitti dall’“ideologia” semplicistica che generalmente è addebitata al populismo.
Lei ha spesso insistito sulla natura ambivalente del Lavoro. Nel contempo alienazione e fonte di legame sociale, la sua trasformazione ha provocato notevoli sconvolgimenti nella società attuale. Quali dovrebbero essere, secondo Lei, il suo posto e la sua natura in un’attività umana liberata dagli imperativi del profitto? Il mondo del lavoro continua ad essere ancor oggi la prima vittima del Capitale?
Ho spesso criticato l’ideologia del lavoro, perché credo che non vi sia niente di “naturale” – e ancor meno di “morale” – nel fatto intrinseco di lavorare. Hannah Arendt e molti altri autori hanno ricordato che il lavoro era considerato nell’Antichità un’attività inferiore, che aveva a che fare con la sfera della necessità, opposta a quella della libertà. I greci, è vero, collocavano la vita contemplativa su un piano superiore anche a quello della vita activa, ma distinguevano anche il lavoro da ogni sorta di altra attività e occupazione. Nelle culture monoteiste, viceversa, il lavoro assume una connotazione positiva, per ragioni essenzialmente morali: in conseguenza del peccato originale, l’uomo deve “lavorare con il sudore della fronte” e il lavoro è un dovere né più né meno del digiuno o della preghiera. Tuttavia, il lavoro nel senso moderno del termine, cioè fondamentalmente il lavoro salariato, si imposto in Europa solo progressivamente, e non senza scontrarsi con fortissime resistenze. Non si è mai completamente liberato della propria costitutiva ambiguità. Per un verso, il lavoro rappresenta un’incontestabile alienazione; per un altro è stato percepito anche come una “liberazione”, o addirittura una “redenzione”. Sia la sinistra che la destra hanno del resto partecipato,ciascuna con i toni che le erano propri, all’esaltazione del lavoro. Infine, mi guarderò bene dal dimenticare che il fatto di aver posseduto uno status di lavoratore all’interno del sistema produttivo ha svolto un ruolo essenziale nella formazione dell’identità operaia. A che punto ci troviamo oggi? La condizione salariale ha continuato costantemente a generalizzarsi, a causa in particolare della scomparsa della società rurale, il che fa sì che ciascuno ne subisca ormai le costrizioni. Il lavoro continua ad essere uno degli ultimi punti di riferimento sociali, nel senso che continua ad apportare un’identità (al contrario della condizione del disoccupato, privato di qualunque identità sociale dalla propria condizione). Ma nel contempo il lavoro tende a diventare un genere raro, come testimonia la comparsa, nella maggior parte dei paesi occidentali, di una disoccupazione che non è più soltanto congiunturale ma strutturale, il che consente al capitale di accentuare la pressione al ribasso sui salari. Nel contempo, si può dire che la Forma-Capitale non è mai stata così aggressiva e predatrice quanto lo è oggi. Il capitalismo del “terzo tipo” o “turbo capitalismo”, riallacciandosi all’epoca dei suoi esordi, ma ormai completamente mondializzato – ha infatti smesso di essere subordinato alla potenza delle nazioni –, ha messo in opera un po’ ovunque un programma di compressione dei redditi salariali, di rimessa in discussione (quando non di smantellamento) dei diritti sociali e di precarizzazione dell’impiego. Parallelamente, quello che merita il nome di crollo del sistema scolastico ha posto fine al miraggio dell’“educazione per tutti”, nonché al sogno sconsiderato dell’eguaglianza attraverso la massificazione e il livellamento. Infine, il fenomeno dell’esclusione segna un aggravamento della sorte di coloro che lo subiscono rispetto a quella che un tempo era l’alienazione di tipo classico. Ieri lo sfruttamento della forza-lavoro degli operai non impediva loro di essere integrati nella piramide sociale, magari al livello più basso. L’esclusione, invece, taglia puramente e semplicemente fuori dalla società. Ieri c’erano degli sfruttati, di cui però si aveva ancora bisogno (per sfruttarli, appunto); oggi ci sono degli “inutili”. Questo aggravamento segna un cambiamento di natura, non soltanto un cambiamento di grado. L’avvento della società “a clessidra” consacra la fine della teoria del “riversamento” (Alfred Sauvy), secondo la quale i profitti accumulati al vertice della piramide sociale finiscono un giorno o l’altro per ridiscendere verso la base, migliorando così il livello di vita generale. L’esame dell’evoluzione dei redditi mostra che i poveri sono sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi – e che le diseguaglianze crescono anche tra le nazioni.
Per i liberali, la disoccupazione non è altro che il risultato della pigrizia dei disoccupati (che “preferiscono ricevere sussidi” piuttosto che cercare un lavoro; per dirla più chiaramente: che rifiutano di accettare qualsiasi lavoro a qualunque livello di remunerazione) e di carichi salariali troppo elevati. Orbene: la moderazione salariale è la regola, ma l’impiego non è mai stato puntuale all’incontro. Oggi, la nuova idea dominante è che la “flessibilità” sarebbe il modo migliore per creare posti di lavoro. Questa idea, che non è granché nuova – corrisponde alla virtù di “adattamento” ausiliaria della selezione naturale nella prospettiva social-darwinista –, si diffonde con tanta più facilità in quanto adesso viviamo in un mondo “liquido”, come dice Zygmunt Bauman, cioè in un mondo dominato dai flussi e dai riflussi, e non da organizzazioni tradizionali di tipo burocratico o gerarchizzato. In questo nuovo contesto, i liberali continuano a spiegare la disoccupazione con un livello salariale troppo elevato e con il fatto che i disoccupati sono inutilmente indennizzati, il che li inciterebbe a non fare niente. Ma essi assicurano che, fra i fattori che impediscono la moderazione salariale, occorre ormai privilegiare le variabili istituzionali che rendono conto della “rigidità” del mercato del lavoro. Si suppone che queste variabili spieghino anche le differenze fra i tassi di disoccupazione esistenti da un paese all’altro. L’idea generale è che, per un dato livello di crescita, un paese potrebbe creare molti o pochi posti di lavoro in funzione unicamente del grado di regolamentazione del mercato del lavoro, il che è assurdo. Lo si vede molto bene oggi in Germania, che è uno dei paesi in cui da dieci anni a questa parte i salari sono stati più contenuti e la disoccupazione è più cresciuta. Le vere causedella disoccupazione vanno infatti ricercate innanzitutto sul versante di un’evoluzione generale della società, che consente di produrre sempre più beni e servizi con sempre meno uomini, poi su quello dello sviluppo dell’economia finanziaria a detrimento della produzione reale, infine su quello della crescita dei redditi dacapitale e dell’ineguale distribuzione degli aumenti di produttività.
Se le classi sociali continuano ad esistere e se la Forma-Capitale non è mai stata così aggressiva, perché non ci si rivolta?
Questo è il grande interrogativo. Naturalmente, si può sempre dire che la gente non si rivolta perché in fin dei conti non ha tante ragioni per lamentarsi della propria sorte. È una risposta ottimistica che certamente sentiremo fino a quando ci saranno della benzina nella pompa e dei prodotti negli scaffali dei supermercati. Ma se questo è vero, perché nel contempo si constatano tanti disagi affettivi, tante miserie materiali, tante sofferenze sociali? Perché i gabinetti degli psicologici non si svuotano? Perché c’è questo ricorso massiccio agli antidepressivi? Perché c’è questa visibile dispersione di energia, questa anomia collettiva, questo anonimato di massa, questa dissoluzione del legame sociale? C’è senz’altro un malessere nella civiltà, come diceva Freud.
Cionondimeno, è vero anche che tutti coloro i quali predicevano, ancora vent’anni fa, che una volta oltrepassato un certo livello di disoccupazione si sarebbe inevitabilmente assistito a una rivolta sociale violenta sono stati smentiti dai fatti. La spiegazione tradizionale è che essendo oggi la disoccupazione indennizzata, almeno durante un certo periodo, le condizioni della rivolta vengono per ciò stesso disinnescate. Un’altra spiegazione, più sottile, è che i disoccupati percepiscono se stessi come privi di tutto, compresa la capacità di mobilitarsi all’interno di una società nella quale non riescono ad inserirsi, tanto materialmente quanto psicologicamente. Io penso che le vere cause vadano ricercate più lontano.
Come rendere conto, ad esempio, del fatto paradossale che le categorie sociali che avrebbero “oggettivamente” più ragioni per rivoltarsi sono in pratica quelle che si rivoltano meno? Tutta una corrente della sociologia dei movimenti sociali si è confrontata con questo paradosso, prima negli Stati Uniti (F.F. Piven e R.A. Cloward), poi in Europa. I suoi lavori sono interessanti nella misura in cui rimettono in discussione l’idea perfettamente intuitiva, conforme al buonsenso, che postula un legame meccanico causa- effetto fra la presa di coscienza e la rivolta, o fra lo scontento e il rifiuto violento di ciò che lo suscita. Oggi sappiamo che il dominio o lo sfruttamento subito possono tradursi sia nella rassegnazione, nella depressione o nella somatizzazione, sia nella contestazione violenta, soprattutto quando questo dominio è in parte mascherato dall’orpello delle distrazioni quotidiane, e soprattutto dall’incapacità di coloro che ne sono vittime di considerarsi come un gruppo unitario, che ha un medesimo status sociale e interessi comuni. La “coscienza infelice” può così restare nel contempo una “falsa coscienza”, una coscienza alienata, e i suoi effetti possono esercitarsi anche negli strati più profondi dei corpi.
La maggior forza della Forma-Capitale è nell’aver fatto credere alla propria “naturalezza”. Tutte le grandi ideologie hanno cercato di far passare per naturali i propri fondamenti, allo scopo di fornire ad essi uno zoccolo di legittimità. Così l’ideologia liberale ha fatto credere prima che lo scambio mercantile è la forma naturale dello scambio (in contrasto, ad esempio, con il sistema del dono e del contro-dono), poi che la dinamica degli scambi mercantili produce del tutto naturalmente la formazione del capitale come rapporto di produzione e il capitalismo come modo di produzione. In questa prospettiva, l’espropriazione dei produttori e la trasformazione in merci delle condizioni e degli attori del processo di produzione vengono ormai considerate conseguenze inevitabili di una evoluzione “naturale”.
L’alienazione si definisce oggi più che mai come un fenomeno di falsa coscienza. Le persone hanno interiorizzato l’idea che, in fondo, non esiste alcun’altra società possibile. Sentono un profondo disagio nel vivere in questa società, ma ci vivono nell’ottica della fatalità. I più colti hanno in mente tutto ciò che si è cercato di fare in passato e non ha funzionato (o ha portato al peggio). Ne deducono che non c’è niente da fare, se non premere per ottenere qualche miglioramento marginale. Di conseguenza tutti sono diventati riformisti. Nel migliore dei casi, i salariati prendono parte a un vasto borbottio mal definito, un “ne abbiamo abbastanza” che si esprime nel “voto di protesta”, senza andare oltre. A ciò si aggiunga che non siamo più nell’epoca delle esplosioni, ma in quella delle implosioni. Nell’era della società igienista, festiva, asetticizzata, coloro che sono in profondo disaccordo con ciò che li circonda non cercano più di fare la rivoluzione. La loro ribellione si esprime piuttosto nel ritrarsi: si ritirano dal gioco. Nel migliore dei casi, si dicono che la vera vita è altrove e si sforzano di costruirsi un “altrove” a propria misura. Può essere l’avventura oppure il ritiro nel bozzolo.
Quanto tempo può durare tutto ciò?
Tutto quel che si può dire è che la storia è aperta – il che non significa affatto che tutto sia possibile in qualsiasi momento, ma semplicemente che non esiste uno stadio sociale storico che possa essere considerato definitivo. Oggi viviamo un’“epoca di acque basse”, come diceva Castoriadis. Non sarà sempre così. Ma il problema è che la domanda è condizionata anche dall’offerta, e l’offerta oggi si è singolarmente prosciugata. Il socialismo si è troppo a lungo orientato verso rivendicazioni puramente quantitative, che erano certamente legittime e necessarie, ma che non riassumono tutto ciò a cui l’uomo aspira. Quando il livello di vita dei più ha iniziato a salire, il movimento socialista si è trovato ad essere in parte disarmato. Nell’epoca del compromesso fordista, una parte della classe operaia ha barattato l’integrazione nelle classi medie con la rinuncia ad ogni mira rivoluzionaria. Inoltre, da quando il sistema sovietico è caduto, i partiti di sinistra non sono mai riusciti a superare la loro crisi d’identità. Il partito comunista e il partito socialista, dopo aver assistito alla scomparsa della propria base sociologica, hanno scelto di tagliare definitivamente i legami con il popolo e sono diventati uno (il Pc) un partito socialdemocratico, l’altro (il Ps) un partito social-liberale. Non riuscendo a trovare gli strumenti teorici per superare la disgregazione dei propri modelli di riferimento, la sinistra alla fine è capitolata senza condizioni, convertendosi all’economia di mercato. Anche se va detto che, sociologicamente parlando, si era già ingordamente riconciliata con il denaro! Questa capitolazione ha molto contribuito a diffondere l’idea secondo cui non esiste alternativa al sistema in vigore (il celebre “TINO”: “There is no alternative”. Nel contempo, essa ha completamente distorto le modalità teoriche e pratiche dell’azione politica di sinistra. Non proponendosi più di operare all’avvento di un’altra società possibile, la sinistra può coltivare unicamente l’ambizione di aggiungere un po’ di “coscienza sociale” ad evoluzioni considerate irresistibili. All’ultraliberalismo essa si accontenta dunque di contrapporre un “social- liberalismo” che ambisce a modificare un po’ la messa in opera delle evoluzioni in corso, senza più contestarne le fondamenta. Il riformismo finisce così per trionfare completamente, e con esso l’idea che si può solamente “sistemare” o riformare marginalmente una fuga in avanti che niente può veramente arginare.
Questa deriva ha certamente aperto alla “sinistra della sinistra” uno spazio politico in cui alcuni attori più radicali cercano di insediarsi, senza però offrire altra alternativa se non un gioco al rialzo verbale di tonalità essenzialmente morale. Lo sproloquio di ultrasinistra coniuga una posizione “rivoluzionaria” immatura, una base sociale borghese, un ultraliberalismo in materia di costumi e di gara al rialzo moralistica con specifiche saltuarie mobilitazioni a favore di settori sempre più periferici della società. Non si trova, in questi gruppi, nessun vero programma, nessuna alternativa chiaramente definita, ma – come anche in molti altermondialisti – un discorso privo di contenuto, accoppiato ad una totale ignoranza di quello che è la politica. La maggior parte di essi si limitano a darsi da fare nell’assistenza “umanitaria”. I più “rivoluzionari” si interessano più al sottoproletariato che al popolo, ai marginali e ai “clandestini” che alla classe operaia, nella quale non credono più. Il loro errore è di credere che troveranno una forza rivoluzionaria di ricambio in quelli che Marcuse chiamava i “sinistrati del progresso”, improbabile categoria che oggi comprende soprattutto i lavoratori clandestini, il sottoproletariato, la “feccia” delle periferie e via dicendo. Si tratta di un grave errore strategico, perché il popolo si sente profondamente estraneo a questa categoria, di cui spesso condanna nettamente i modi di agire (il che si comprende facilmente, dato che ne è la prima vittima).
Un errore parallelo è rappresentato dal far consistere l’azione politica di sinistra nella difesa e nella promozione di modi di vita alternativi difesi dai gruppi ultrafemministi, dagli omosessuali, dai sostenitori della depenalizzazione della droga, il che la riduce al militare per un “liberalismo culturale” che, col pretesto di destabilizzare convenzioni e pregiudizi, esalta nella maniera “bo[rghese]-bo[hémienne]” ogni sorta di comportamento marginale, di cui si impegna a fare altrettante nuove norme. Questo modo di fare è l’erede diretto dell’edonismo borghese (che continua a coesistere con il borghesismo vecchio stile, austero e benpensante), se non di un libertinaggio antisociale che, in quanto tale, ha sempre profondamente scioccato la “common decency” popolare.
Il trionfo dell’ideologia neoliberale non è dovuto in gran parte all’assenza di un corpus dottrinario abbastanza consistente che gli si opponga? Su quali basi potrebbe affermarsi un pensiero ribelle?
Ovviamente le cause di quel “trionfo” dell’ideologia liberale che Lei richiama sono molteplici. Una di quelle di cui si parla meno è la divisione dei suoi avversari che, prigionieri dell’obsoleta distinzione destra-sinistra, non riescono a (e assai spesso non vogliono) intavolare fra di loro un vero dialogo, per non dire poi delle azioni comuni che essi potrebbero altresì intraprendere. La Forma-Capitale costituisce oggi il centro del sistema esistente: questa centralità implica l’unione delle periferie che la considerano il nemico principale. Il rinnovamento del pensiero critico o “ribelle” è inoltre un’esigenza assoluta – anche se la questione dell’articolazione fra teoria e prassi oggi è diventata più complessa che mai. L’obiettivo è fare di tutto per favorire a tutti i livelli l’autonomia individuale e collettiva nei confronti della logica mercantile, rimediare allo scollegamento sociale, riabilitare l’impegno nella vita pubblica e la legittimità di un grande progetto di civiltà fondato su valori condivisi e sulla chiara consapevolezza di un destino comune. Ma nell’immediato la cosa più importante è sicuramente lottare contro l’idea che non esistano alternativa all’attuale modello di società, far capire alle persone che non stanno vivendo sotto l’orizzonte della fatalità. L’ho già detto: la storia continua ad essere aperta. Il “trionfo” dell’ideologia neoliberale, nella misura stessa in cui segna un apogeo, può anche significare l’inizio della fine. Sono sempre stato convinto che il sistema del denaro sarebbe stato ucciso dal denaro. Naturalmente, questo non è un buon motivo per limitarsi ad aspettare. L’attesa delle catastrofi non costituisce un programma. Lo spirito rivoluzionario consiste nel continuare sempre, costi quel che costi, a fare quel che si pensa debba essere fatto.
Tuttavia, oggi incontestabilmente vi è una certa indifferenza delle classi popolari alla politica, indifferenza incoraggiata da ogni sorta di fenomeni sociali ben noti (consumo, televisione, tempo libero ecc.). Questa indifferenza dimostra o che le classi in questione non si aspettano più niente dalla politica (non ci credono più), o che esse non considerano la propria condizione sociale tanto insopportabile da essere spinte a mobilitarsi. Le due ipotesi, d’altronde, non si escludono vicendevolmente, giacché le classi popolari, come ho già detto, oscillano frequentemente fra l’accettazione e l’interiorizzazione del dominio che subiscono e il voto di protesta che consente loro di manifestare contro di esso in maniera minimale. Comunque stiano le cose, è certo che le classi popolari sono oggi le peggio armate per cogliere la sostanza del gioco politico e prendervi parte, e dunque per conferire ai propri voti una portata conforme alla razionalità che è loro caratteristica. Cercare di rimediare a questo stato di cose, dando a questi ambienti non soltanto i mezzi per pesare sull’azione politica ma anche quelli necessari a dotarsi di un’unità simbolica che consenta loro di considerarsi una forza collettiva reale dovrebbe ovviamente essere l’obiettivo di un vero partito popolare.
07:35 Publié dans Rébellion in Italiano | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : alain de benoist, pensiero ribelle, il pensiero ribelle di alain de benoist | Facebook | | Imprimer
09/09/2009
Lettre de Costanzo Preve à un traducteur français
Note de la rédaction de Rébellion : Cette longue lettre du philosophe communiste italien est un document important pour comprendre la démarche théorique de ce penseur dissident.
Lettre de COSTANZO PREVE à B., traducteur français.
Juin 2009.
Comme tu m’as écrit une belle et émouvante lettre en langue italienne, je devrais répondre en français. Il faut que tu m’excuses si je ne le fais pas, et si je réponds en langue italienne. Ce n’est pas par paresse, parce que mon français est assez bon pour une réponse dans ta langue. C‘est que je veux montrer cette lettre à des amis italiens qui ne savent pas le français, et avec qui je veux discuter certaines thèses à propos d’un chemin spirituel qui n’est pas seulement le mien, mais qui appartient à notre génération commune. Il faudra évidem-ment en discuter de vive voix. Pour l’instant, j’aligne certains raisonnements sur ma propre voie spirituelle*, pour vérifier s’il y a des éléments communs. Et alors, je passe à l’italien.
1. Ce n’est évidemment pas à moi de reconstituer mon parcours politique et philosophique. Le vieil Hegel a écrit : « Tout ce qu’il y a de personnel dans mon œuvre est faux ». Nous lisons Freud, et nous savons que nous ne pouvons rien reconstituer de notre passé sans tomber dans la fausse conscience, et dans les jeux du narcissisme et des refoulements. Toutefois, si je devais interpréter moi-même mon chemin spirituel et politique, je dirais qu’il s’agit d’une élaboration dialectique qui part de la déconstruction progressive d’un code acquis dans ma jeunesse, le code de l’hérésie d’une hérésie.
Mais expliquons nous mieux.
2. Le secret philosophique du succès du capitalisme consiste dans la réussite de la mutation d’une genèse particulière en une validité universelle. Le capitalisme est une globalisation économique dépourvue d’universalisme philosophique, et c’est ce caractère qui lui fait préférer naturellement le relativisme et le nihilisme à toute forme d’ontologie universaliste. Ce n’est pas un hasard si les appareils idéologiques serviles des facultés universitaires de philosophie ont élaboré pour lui et développé ces dernières décennies (avec des exceptions qui confirment la règle), un code théorique d’iden-tification d’un type relativiste et nihiliste. Pour le capitalisme, l’unique Absolu est la souveraineté de la valeur d’échange, accessible de manière différenciée selon la diversité du pouvoir d’achat; tout le reste est naturellement relatif. Pour que ce mécanisme se puisse reproduire, pas besoin d’aucun fondement métaphysique transcendant, transcendantal, ni même historico-dialectique : voilà pourquoi on parle tant de nihilisme aujourd’hui. Le nihilisme est la philosophie spontanée du capitalisme, et le relativisme sa concrétisation idéologique.
Le pape Ratzinger voudrait le capitalisme sans nihilisme et sans relativisme. Cela me fait penser à un sot, qui voudrait avoir un foie sain, tout en buvant tous les jours des litres d’alcool fort.
3. Le capitalisme naît en Europe occidentale, dans des conditions historiques et culturelles bien spécifiques. Mais il n’aurait pu se répandre partout avec tant de succès s’il n’avait « rencontré » des potentialités individualistes et mercatistes (1) préexistantes, pour subordonnées qu’elles fussent, dans les autres parties du monde (l’Inde, la Chine, etc.). C’est donc qu’il existe une sorte d’individualisme anti-communautaire potentiel dans le monde entier, qui est passé à l’acte en Europe occidentale en premier lieu ( je tiens un langage aristotélicien), et qui s’est ensuite « actualisé » ailleurs. Certes, on peut parler aussi de colonialisme, d’impérialisme, etc. Cependant, sans ce substrat potentiel d’individualisme anti-communautaire (déjà visible d’ail-leurs dans la Grèce des pré-socratiques, dans l’Israël des prophètes égalitai-res, en Chine, etc.), et que l’occidentalisme impérialiste et l’eurocentrisme culturel ont fait passer de la puissance à l’acte, le succès du capitalisme resterait tout à fait inexplicable.
4. Pour résumer les choses à l’extrême, la pensée communiste de Karl Marx a une genèse qui procède d’une élaboration rationnelle systématique de la conscience malheureuse bourgeoise ( et par conséquent n’a absolument rien de « prolétarien »); et elle donne lieu finalement à une hérésie capitaliste.
Par « hérésie capitaliste », j’entends une pensée qui s’appuie originaire-ment sur les mêmes bases « religieuses » bourgeoises : le mythe du progrès dans l’histoire et le caractère central du développement des forces produc-tives ; en assume donc intégralement les prémisses (critique envers la reli-gion antérieure et envers le caractère fondateur, porteur de vérité, cognitif, et non seulement épistémologique et gnoséologique(2) de la philosophie) ; et rompt toutefois de manière « hérétique » avec elles, sur le fondement du fait incontestable que ni le progrès ni le développement des forces productives ne conduisent à l’égalité et à la liberté, mais à leur contraire. La faiblesse des hérésies par rapport aux religions nouvelles vient de ce qu’elles partagent avec les orthodoxies auxquelles elles se rapportent les mêmes bases dog-matiques, et que partant elles peuvent être facilement «réabsorbées » à un moment ultérieur. L’histoire de presque un siècle et demi de « marxisme », considérée dans son ensemble, est l’histoire d’une réabsorption dans l’esprit capitaliste général, à partir du moment surtout où la critique artistique et culturelle des intellectuels d’« avant-garde » divorce de la critique écono-mico-sociale des classes subalternes (voir Boltansky-Chiapello).
5. Si le capitalisme est la religion qui a remporté la victoire dans les trois derniers siècles, et le marxisme la principale hérésie de cette religion, je suis l’enfant de l’hérésie d’une hérésie; savoir, de cette culture mêlée de trot-skisme et de maoïsme que j’ai absorbée en réalité dans le Paris des années soixante, et non en Italie, où ce qui prévalait était tout au plus l’hérésie ou-vriériste, dont le dernier représentant postmoderne est Antonio Negri, lequel a fondu ensemble le subjectivisme gentilien (3) de l’ouvriérisme avec Fou-cault, Deleuze, et Guattari.
6. Cette « hérésie d’une hérésie » que j’assimilais n’était pas dépourvue de fondements, puisqu’elle partait de l’observation parfaitement juste que le communisme orthodoxe traditionnel montrait des tendances évidentes à être réabsorbé dans le capitalisme. Ses résultats postérieurs, en Chine et en URSS, ont largement vérifié cette hypothèse ; et en même temps, il faut partir du fait que cette hérésie d’une hérésie (où provisoirement je ne veux pas encore faire de distinction entre trotskisme, maoïsme ni même d’autre hérésies comme le conseillisme mystico-prolétarien de Castoriadis, Lefort, et Lyotard) n’avait quand même pas raison. Elle avait certes diagnostiqué la vraie pathologie (la réabsorption progressive de l’hérésie communiste dans l’orthodoxie capita-liste), mais elle se flattait toujours de l’illusion, que l’unique thérapie consis-tât à radicaliser à l’extrême le modèle hérétique originaire lui-même.
7. Mais dans tout cela, c’était l’hérésie de l’hérésie du maoïsme qui était encore la meilleure, ou si l’on veut la moins pire.
Le conseillisme fondamentaliste de Socialisme ou Barbarie ( dissout en 1965) se fondait sur un mythe sociologique prolétarien, typiquement oniri-que, à base de purisme moraliste greffé sur un économisme sociologique.
Quant à la stérilité philosophique et politique du trotskisme, elle tenait à son caractère eurocentrique. Il maintenait toutes les prémisses de l’ortho-doxie communiste (hérésie elle-même du capitalisme, mais basée sur les fondements mêmes de celui-ci) : savoir, le mythe d’un salut exclusivement sociologique-prolétarien, en introduisant l’hypothèse facile, et démonologi-que, du rôle central de la corruption bureaucratique due elle-même à un développement insuffisant des forces productives. Une fois encore, ce qu’on appelle la « rareté », ce pilier de l’économie politique capitaliste, devenait le facteur explicatif fondamental d’une prétendue science de l’histoire. L’hé-résie de l’hérésie trotskiste (et je ne discute pas la sincérité morale de ses meilleurs militants), demeure entièrement enfermée dans la vision eurocentri-que et occidentaliste du monde.
Le maoïsme était certes un phénomène profondément chinois, mais on ne peut nier que certaines de ses thèses théoriques n’eussent un caractère uni-versel. Il reste vrai, par exemple (et la suite l’a confirmé), qu’à l’époque dite « de transition », et dont nous savons aujourd’hui qu’elle ne l‘était pas du tout, la « bourgeoisie » (terme impropre et incorrect pour désigner l’ensemble des agents stratégiques de l’accumulation capitaliste) se rassemblaient surtout dans le Parti communiste. C’est la réalité. Et cependant, une stratégie extrémiste ( la Révolution culturelle, la Bande des quatre, etc.) s’est révélée inapte à contrecarrer ce processus, elle l’a au contraire involontairement accéléré et favorisé. Ci Ji -Wei (dont j’ai longuement présenté le livre) (4) a bien montré que si la morale communautaire est mécanisée par un projet politique théologique, quand ce dernier s’effondre, elle l’accompagne logi-quement dans sa ruine.
Le maoïsme est toutefois un modèle meilleur que le trotskisme, parce qu’il est moins ouvriériste, moins eurocentrique, et que sa conception des classes est moins mythologique. Du moins est-il vaguement averti de l’existence des peuples et des nations, et il ne les « brouille » pas toutes dans une improbable omelette sociologique prolétarienne. La fureur avec laquelle le trotskisme s’est précipité dans le pacifisme, le féminisme différenciateur, et l’écolo-gisme officiel ne peut s’expliquer que par un refus (largement inconscient) de critiquer radicalement cette attitude sociologique prolétarienne, que l’on croit rendre plus « intégrale » et perfectionner simplement en lui « ajoutant » de nouvelles catégories. Mais quand la viande est avariée, inutile d’y ajouter du poivre, des épices, des piments, etc.
8. Mon parcours peut donc être interprété (à tout le moins par moi-même ) comme l’élaboration dialectique, ou, si l’on veut, la déconstruction ration-nelle) d’une hérésie d’une hérésie ( beaucoup plus maoïste que trotskiste). Je n’ai certes pas été le seul à le faire dans le demi-siècle qui s’achève ( 1960-2010). Je sais bien que beaucoup de ceux qui ont mon âge sont pour la plu-part restés fidèles à leur vieille « hérésie d’hérésie » de référence: trotskiste (comme Daniel Bensaïd), ou maoïste (comme Alain Badiou). Je crois que ma relative supériorité sur ces deux respectable philosophes-militants ( que l’on me pardonne ma présomption) vient de ce que j’ai su mieux radicaliser ma déconstruction, ne restant pas à la surface, mais parvenant à descendre jusqu’aux dernières bases métaphysiques qui avaient premièrement constitué l’hérésie (chez Marx), et ensuite l’hérésie de l’hérésie ( trotskisme et maoïsme). Si en effet l’on s’arrête à mi-chemin, on ne peut éviter d’être refoulé vers l’origine par une espèce de gravitation, une calamiteuse fatalité idéologique d’appartenance et d’identité.
9. Par volonté de rupture avec les fondements religieux précédents de l’état turco-ottoman ruiné, Mustapha Kemal Atatürk commença par boire du vin et par manger du porc en public, puis entreprit de supprimer l’alphabet arabe. Je n’aborde pas ici la question de savoir s’il a bien ou mal fait, je la laisse à la turcologie. Je me borne à constater que Mustapha Kemal voulait sauver l’Etat et le peuple turcs menacés d’entière dissolution, et que, se fondant sur cette intention subjective, il commença par enfreindre certains tabous ali-mentaires, puis alla jusqu’à prendre la décision inouïe de changer l’alphabet.
Depuis longtemps, je suis persuadé qu’il faut changer l’alphabet dans lequel a été écrite l’hérésie marxiste du capitalisme. Il faudra toujours qu’il y ait des spécialistes capables d’étudier et de lire l’alphabet précédent, car sans mémoire du passé, il n’y a pas de futur (et je suis donc pour les lettrés confu-céens et contre le brûlement des livres par ordre de Qin Shi Huang-di, et par conséquent contre les campagnes extrémistes de « critique de Lin-Biao et de Confucius » à la fin de la Révolution culturelle chinoise (5)). Mais l’alphabet doit être changé. C’est l’alphabet dans lequel ont été écrits les grands textes de l’idéologie du progrès et de la prééminence des forces productives, et par surcroît, les classiques de l’Economisme, de l’Historicisme, de l’Utopisme, etc. Mais il y a plus.
10. Pour des raisons qu’il serait trop long ici de développer dialectiquement (mais rien n’est plus facile), le petit monde autoréférentiel (6) des intellec-tuels de gauche a gardé toute sa bigoterie narcissique, après même la sécu-larisation post-moderne de la vieille trame dogmatico-religieuse qui leur est propre. C’est pour cette raison que ma collaboration à une revue sulfureuse comme celle d’Alain de Benoist équivaut symboliquement à Mustapha Ke-mal buvant de l’alcool, mais sans que je dispose de la force militaire qui empêche la réaction hystérique des « purs ».Bien! Je l’ai fait, et même pis: je collabore à Eurasia, etc. Il s’agit, évidemment, d’un acte symbolique; mais aussi de quelque chose de plus. Il s’agit d’avoir préféré le risque de la recher-che aux fausses sécurités de l’identité et de l’appartenance. Peut-être qu’il intéressera le lecteur de savoir comment je suis venu à cette décision. Si ce n’était qu’un fait personnel, il ne vaudrait pas la peine d’en parler. Pour les narcissiques, le miroir de la salle de bain suffit. Mais je crois que mon dilemme a été celui de toute ma génération politique. C’est pourquoi je vais être obligé d’utiliser le « je », pronom odieux.
11. Au point de vue de l’histoire du communisme, les vingt ans qui vont de 1956 à 1976 présentent une certaine unité, si l’on considère qu’ils partent de la prétendue « déstalinisation » du XXème congrès du PCUS et se terminent avec le coup d’état contre la Bande des quatre, un mois après la mort de Mao Zedong. Cependant, alors même que le temps écoulé depuis permettrait déjà d’en faire un bilan historique convaincant, des positions conservatrices qui existent dans la communauté des intellectuels y font obstacle. Je me limiterai ici à quelques observations, très insuffisantes.
En premier lieu, la représentation de Staline comme « chef des bureaucra-tes soviétiques corrompus » dominait dans les cercles intellectuels occiden-taux. Le paradoxe, c’est que le mouvement trotskiste organisé, infime numé-riquement, était de fait majoritaire dans le domaine intellectuel, et que par suite, la déstalinisation fut subjectivement ressentie par les intellectuels (mais non certes par les ouvriers communistes) comme un phénomène politique « de gauche ». Il a fallu des dizaines d’années pour comprendre que c’était faux, que c’était tout le contraire. Cette remarque ne comporte pas d’appro-bation de Staline ni de son système politique; mais puisque les cercles intellectuels peuvent ainsi faire une erreur de 180 degrés, il faut se demander pourquoi toute une culture politique se fonde sur des illusions si fragiles et inconsistantes. C’est ici que commencerait ce qu’en son temps Franco Fortini (7) appela « la chaîne des pourquoi ».
En second lieu, l’énigme historique de ce qu’on appelle « Mai 68 » n’a pas encore été résolue d’une manière satisfaisante. Personne ne soutient plus aujourd’hui que ce fut la « répétition générale » d’une révolution démocra-tique et socialiste dans les pays du capitalisme avancé. Mais en même temps, son image de mythe fondateur « jeuniste » d’un capitalisme libéralisé dans ses moeurs et son éthique sexuelle (v. Boltansky, Lipovetsky) n’est pas entiè-rement satisfaisant. Est-il possible qu’une génération entière ait été abusée à ce point? Pour l’essentiel, il reste vrai, il est désormais historiquement véri-fié, que le capitalisme s’est renforcé et non pas affaibli en se « délestant » de la vieille éthique familiale bourgeoise, ce qui devrait faire comprendre une bonne fois que « capitalisme » et « bourgeoisie » ne sont pas identiques. Toutefois, les valeurs libertaires et communautaires de la génération des années soixante ne peuvent être réduites à une pure et simple « ruse de la production capitaliste » (8). Il est réellement possible de voir en Mai 68 un phénomène de gestion de crise de la part des oligarchies dominantes, qui savent faire le tri entre des exigences acceptables et inacceptables, et par là divisent ceux qu’elles dominent, satisfaisant certains et isolant les autres.
« Un se divise en deux » (9) Sur ce point la philosophie chinoise avait raison. Les uns se sont contentés de la victoire présumée de la libéralisation des mœurs, les autres, les vaincus, et j’en suis -- et je crois que je peux dire:nous en sommes --, a vu rejetée son exigence d’une société autre.
12. Je vais parler un peu de l’Italie, et de la seule Italie. La décennie 1976-1986 y a vu mourir le communisme dans sa traditionnelle dimension politi-que de masses, alors même que celle purement électorale a partiellement tenu (en grande partie inertielle, identitaire, et relative au pouvoir local dans cer-taines régions italiennes); ce qui a dissimulé une absence critique de pers-pectives politiques.
Du point de vue de l’imagerie idéologique, cette décennie a vu les intel-lectuels italien passer de l’historicisme progressiste à un désenchantement post-moderne d’épigones subalternes des « nouveaux philosophes » (10) et de Lyotard. Vattimo (11) a remplacé Gramsci, et le binôme Nietzsche-Heideg-ger le précédent, Hegel-Marx. Lukacs et Bloch ont été enterrés, mais Al-thusser aussi, et on a vu proliférer les gender studies (12) du féminisme différenciateur. Avec la distance de maintenant un quart de siècle, l’unité de ce phénomène est désormais évidente. Mais ce n’en est pas l’aspect principal, parce que cet aspect idéologico-philosophique n’a concerné que de petits groupes universitaires. Le principal a été la «reconversion idéologique » liée à la personne de Berlinguer, et qui fut évidente dès 1980 environ.
De fait, on a cessé de parler de la supériorité du socialisme sur le capita-lisme, et du communisme sur l’impérialisme; on s’est mis à parler de la «su-périorité morale» des communistes (entendus comme une classe politique : le PCI devenu PDS ; DS, PD, etc. (13)), et de l’« infériorité morale » des démocrates chrétiens et des socialistes. L’ennemi devenait un ennemi mora-lement corrompu (Craxi d’abord, et puis Berlusconi), et c’est de cette manière que l’on se préparait idéologiquement à affronter sans douleur la ruine prochaine de la Maison communiste de référence, à travers une sorte de « putsch moraliste ». La légitimation de l’accès au pouvoir (non pour le socialisme, mais pour un capitalisme « moralisé ») ne consistait plus en une majorité électorale obtenue pacifiquement, mais en une sorte de « putschis-me » judiciaire pour le bien, destiné à remplacer des gens corrompus et im-moraux par d’honnêtes gens.
Ainsi commençait le scénario de la campagne Mani pulite. (14)
13. Que fut donc, historiquement, Mani pulite ? (abstraction faite de la sub-jectivité de ses acteurs politiques et des faits de corruption bien réels).
Ce fut, en 1992 et 1993, un coup d’état judiciaire extra-parlementaire qui visait à détruire le précédent système de pouvoir co-associatif, basé sur la représentation proportionnelle des partis, dans un cadre keynésien de souve-raineté monétaire de l’Etat national. Il avait été préparé idéologiquement dans la période précédente à travers cette idéologie de « putschisme moralis-te », préconisant de remplacer les corrompus par les « honnêtes gens ». La prémisse était toute la culture du Parti d’action piémontais (Gobetti, Robbio, etc.), pour qui les « italiens » sont un peuple corrompu (le peuple des singes, avait écrit Gobetti à propos de l’adhésion au fascisme). Puisque la majorité des italiens vote mal (Mussolini, la Démocratie chrétienne, Craxi, et à présent Berlusconi, etc.), il faudrait un supplément de moralité venu de l’extérieur (la presse étrangère, le libéralisme anglais, présentement Obama, des juges hon-nêtes, des journalistes courageux, etc.)
14. C‘est bien à contre-cœur que je dois faire une brève parenthèse sur le phénomène Silvio Berlusconi. A l’étranger, les journalistes et les intellectuels français, anglais et allemands ont enfin une cible facile pour exprimer leur traditionnel mépris des italiens. Ils trouvent en Italie une sorte de « cin-quième colonne » dans le parti dit des « anti-italiens » (Montanelli, Scalfari, etc), ceux qui continuent à penser qu’une belle réforme protestante – mais à l’anglaise, et non à la française ni à l’allemande – a manqué à l’Italie, et qui voudraient que cette dernière fût homologuée dans le monde anglo-saxon, et donc dans un monde présumé capitaliste-libéral total, mais où l’on respecte la queue au bureau de poste, s’entend.
Les capitalistes délèguent les pouvoirs secondaires à la classe politique, formée d’employés dépourvus de conscience malheureuse et de toute in-quiétude philosophique. Toutefois, ils surveillent indirectement cette classe politique au moyen de deux espèces de gens encore plus fiables : les jour-nalistes et les juges. La campagne judiciaire et journalistique contre la Pre-mière république, déchaînée entre 1992 et 1994 aurait plu à Marx, par la nature structurelle de phénomènes qui n’étaient superficiels qu’en appa-rence.
Berlusconi a été un résultat involontaire de Mani pulite, et il doit son pou-voir exclusivement à ce coup d’état judiciaire extra-parlementaire, appuyé par une campagne de presse envahissante et capillaire, sur le fond idéologi-que de cet esprit de « putschisme moraliste » semé partout depuis la disso-lution du défunt Parti Communiste Italien entre 1976 et 1991. Les juges ont éloigné la classe politique toute entière qui avait gouverné de 1948 à 1991: Démocratie Chrétienne, Parti Socialiste Italien, Parti Républicain Italien, Parti Social-Démocrate Italien, Parti Libéral Italien. L’intention originaire n’était pas de donner le pouvoir aux mercenaires nihilistes du PCI-PDS, mais de favoriser un putschisme de mafias oligarchiques (Segni, etc. (15)). Mais il en alla autrement. Dans le fait, la seule classe politique professionnellement capable de mener la transition du précédent capitalisme étatique assisté jusqu’au nouveau scénario globalisé néo-libéral était bien le mercenariat bureaucratique et nihiliste PCI-PDI, tout autant dépourvu de conscience malheureuse, et entièrement converti à l’esprit putschiste moralistico-judiciaire.
Berlusconi, en tant que capitaliste « privilégié » par le précédent gouver-nement Craxi, avait peur que son principal ennemi (le groupe financier Scalfari - De Benedetti des journaux L’Espresso et La Repubblica) n’en pro-fitât pour le ruiner et le faire mettre en prison. Il se disposa donc à se mettre à la tête de ces soixante-dix pour cent des électeurs italiens auxquels ce puts-chisme moraliste journalistico-judiciaire avait ôté sa représentation politique. C’est en cela et en cela seulement que consiste la base structurelle du succès de Berlusconi. Et c’est évidemment ce que les putschistes moralistes ne sauraient reconnaître, aussi recourent-ils aux lieux communs traditionnels du parti « anti-italien » ( les italiens seraient naturaliter maffieux, avec un esprit de famille immoral, le culte mussolinien du chef, un égoïsme exclusif, des harems de gamines ambitieuses, etc.)
Voici donc vingt ans que nous sommes contraints en Italie de subir ce scénario infect, où pas un des deux partis en présence n’est digne du moin-dre respect ni de la moindre préférence.
15. Comme si ce coup d’état judiciaire extra-parlementaire de 1992 n’avait pas suffi, qui allait mettre au pouvoir le mercenariat nihiliste « métamor-phique » PCI-PDS-DS-PD, il y en eut un autre en 1999, qui porta l’Italie à la guerre contre la Yougoslavie, en dépit de la charte de l’ONU, qui ne la permettait pas, et de la constitution italienne elle-même, qui bien explici-tement ne la permettait pas non plus. Nous savons parfaitement aujourd’hui qu’il s’agissait d’une guerre géopolitique menée par les USA et l’OTAN, couverte du manteau de la nouvelle idéologie politiquement correcte des droits de l’homme (quoique proportionnée à l’envergure de bombardements irrésistibles). Pour gérer ce deuxième coup d’état, on fit appel à d’Alema, ce moustachu cynique, ancien chef des Jeunesses Communistes du PCI. Je t’épargne les détails, qui seraient pourtant intéressants (j’ai écrit un livre là-dessus, Le bombardement éthique, paru en 2000 aux éditions CRT, qui a été traduit en serbo-croate).
16. Si j’ai ouvert cette brève parenthèse, c’est que l’histoire de l’Italie telle que je l’ai vécue entre 1992 et cette année 2009 a pris l’aspect d’un véritable théâtre de l’absurde, qui rappelle la lecture par Lénine de la Science de la logique de Hegel, où toute chose se renverse en son contraire, et la civilisa- tion en barbarie (en l’occurrence, la guerre de 1914). Quant à moi, j’ai vécu le retournement du communisme italien et sa transformation en mercenariat cynique et nihiliste de l’Empire des USA. Par conséquent, si ma pensée naît certes de mes uniques capacités dialectiques personnelles, le « facteur exter-ne » peut se résumer ainsi :
I) Refus de la religion capitaliste-bourgeoise transmise par mes pa-rents, qui appartenaient à la génération fasciste déçue, moins par le fascisme (auquel ils auraient applaudi avec enthousiasme s’il avait gagné), que par sa désastreuse défaite militaire et les bombardements de 1943-1945.
II) Adhésion au communisme orthodoxe par une réaction largement oedipienne à la religion capitaliste, et progressive mise en question critique de cette hérésie de l’hérésie.
III) Adhésion, au début vaguement trotsko-maoïste, au monde extrémiste et critique de l’hérésie de l’hérésie. Mais les hérésies plus préci-sément gauchistes (cf. Richard Gombin, Les origines du gauchisme, 1971) ne m’ont jamais intéressé, par leur complète illusion que l’hé-résie de l’hérésie pourrait finalement constituer une religion assez efficace pour abattre celle du capitalisme.
IV) Critique radicale de l’hérésie d’une hérésie, sans toutefois la pousser jusqu’à l’abandon de la critique communiste du capitalisme. Cette critique radicale m’a conduit à violer le « politiquement correct » de la gauche, qui est la base unique de son code d’appartenance identi-taire (et je rappelle ici les gestes de Mustapha Kemal). D’où ma critique de la théologie interventionniste des Droits de l’homme, du code politiquement correct, de la nouvelle religion de l’holocauste qui donne aval au sionisme et à l’américanisme, de l’antifascisme entretenu en l’absence complète de fascisme, de l’indifférence générale au « putschisme » purement moraliste du code antiberlus-conien des intellectuels italiens, etc.
V) Enfin, constatation que le monde à l’envers des deux dernières dé-cennies (et particulièrement en Italie) exige un renversement adéquat du code théorique d’interprétation du monde. Et je crois que c’est là-dessus, et précisément là-dessus, que se sont greffées, dans l’his-toire de ma vie, la systématisation et la cohérence conceptuelles de ma pensée depuis dix ans. Comme on le voit, toute pensée est libre, mais tout ensemble historiquement déterminée. Et nous pouvons donc enfin parler de philosophie.
16. Vint un moment, où Mustapha Kemal s’est rendu compte qu’il ne suffisait pas de boire du vin en public, et de remplacer le fez et le turban par le chapeau et la casquette (tu m’excuseras si j’insiste sur cette inno-cente analogie: c’est que j’ai fait aussi des études de turcologie). Il a com-pris qu’il fallait aussi changer purement et simplement d’alphabet. Mais mon analogie ne signifie nullement que j’approuve ses choix (et en bon hellénophile, je préfère même le vieux multinationalisme du monde otto-man). Cela veut dire seulement que tant que nous n’écrirons pas la vieille langue de Marx, toujours bonne et valide, dans un alphabet nouveau, nous continuerons à faire, comme les miniaturistes des manuscrits arabes, des chefs d’œuvre artistiques merveilleux, mais toujours dans les marges des mêmes textes religieux de légitimation.
17. Tâchons de poser correctement le problème dès le commencement. Je tiens pour erronée la terminologie de Marx et Engels touchant le « com-munisme primitif ». Le terme de « mode de production communautaire » aurait été meilleur, bien qu’il s’agisse d’une chose qui diffère grandement selon les lieux. La terminologie de Hosea Jaffe (16) est correcte : le mode de production communautaire à l’origine sans classes, où la division du tra-vail se fonde sur les deux complémentarités hommes - femmes, et jeunes-vieux, s’est postérieurement transformée en despotisme communautaire. La légitimation du despotisme communautaire est de nature religieuse, il n’y a pas encore de philosophie. Le mode de production esclavagiste, puis féodal (comme en Europe et au Japon) sont des exceptions, et non la règle, au sein du despotisme communautaire (Jaffe), que Samir Amin appelle quant à lui « sociétés du tribut ». Ce qu’on a appelé « mode de production asiatique », avec des castes (en Inde) ou sans (en Chine) représente l’évolution du despotisme communautaire.
Le communisme selon Marx pourrait être défini comme le rétablissement du mode de production communautaire, mais évidemment sur la base du développement des forces productives industrielles, et de l’irréversible constitution de l’individu moderne, lequel ne pourrait supporter son hypo-thétique disparition au sein d’agrégats sociaux organiques pré-modernes. Les deux conditions préalables au rétablissement d’un mode de production communautaire demeurent par conséquent des forces productives sociales développées, et cette irréversible constitution de l’individu moderne. Et le problème devient alors, en le posant brièvement : comment libérer le déve-loppement des forces productives de leur soumission et incorporation à la reproduction capitaliste, et d’ autre part libérer la constitution de l’individu moderne de son incorporation à l’anomie individualiste et atomique des derniers siècles ?
Jusqu’ici, ce que je dis est encore tout à fait compatible avec le marxis-me traditionnel, hormis de notables innovations terminologiques, mais qui ne suffisent pas pour effectuer une véritable révolution scientifique de paradigme (je prends ce terme dans le même sens que Thomas Kuhn (17)).
18. Si le diagnostic marxien impliquant le passage du capitalisme au communisme était exact pour l’essentiel, il est évident qu’il n’y aurait pas à évoquer la communauté et le communautarisme. Mais il n’est pas exact, et pour beaucoup de raisons. En premier lieu, il n’est pas vrai que la bour-geoisie capitaliste devienne, à un certain point de son développement, para-sitaire comme les classes féodales et seigneuriales, qui vivent de rentes et non de profit, et qu’elle n’est plus capable de développer les forces pro-ductives. Deuxièmement, il n’est pas vrai qu’il existe des dynamiques in-ternes au mode de production capitaliste qui induisent à la constitution d’un travailleur collectif par association coopérative, du directeur d’usine jusqu’ au dernier des manœuvres. Troisièmement, il n’est pas vrai qu’il se forme au sein même de la production un general intellect potentiellement com-muniste, sans que l’on ait besoin d’y greffer des pratiques communistes et communautaires fondées philosophiquement. Quatrièmement, il n’est pas vrai que les classes ouvrières, salariées et prolétariennes produisent pro-gressivement une conscience révolutionnaire qui désintègre le système. Cinquièmement, il est absolument illusoire que ces classes puissent être « remplacées » par de nouveaux sujets collectifs déterminées biologique-ment (les femmes, les jeunes, etc.) ou géographiquement (les paysans pauvres des pays ex-colonisés, etc.
Je me suis borné à ces cinq points, mais j’aurais pu en mettre beaucoup plus, dix ou quinze. La réforme communautaire du communisme part de là, et non d’instances réactionnaires ou « irrationnalistes », comme le procla-ment les scientistes marxistes de toutes sortes (en Italie, l’althussérisme italien, surtout).
19. Il faut toutefois se garder de cacher sa tête dans le sable comme une au-truche pour ne pas voir que le vieux modèle marxiste était capable d’a-vancer une déduction scientifique ( fût-elle erronée) de la transition histori-que et politique du capitalisme au communisme, tandis que le nouveau modèle communautaire ne l’est pas, et ne recourt qu’à des arguments très faibles et tout extérieurs au sujet ( critique du productivisme, de l’« hor-reur économique », de l’individualisme anomique, exhortation à la solidari-té, etc.). Les adversaires du modèle communautaire exploitent évidem-ment cette faiblesse, qu’ils soient partisans de l’individualisme capitaliste, ou du marxisme orthodoxe. Il serait donc absurde de la dissimuler. Mais la meilleure manière de ne pas la cacher est de la revendiquer hautement, comme une force. C’est ce qu’on ne fait pas, on préfère se taire et rester tout confus. Ce n’est pas de cette façon que l’on réussira à sortir de l’im-passe où nous nous trouvons. Il faut transformer une faiblesse en force, et ne pas s’obstiner à la dissimuler avec embarras.
20. La transformation gestaltique (18) est ce phénomène de la perception visuelle par lequel, en regardant le même dessin, on voit les grandes oreil-les d’un lapin au lieu du bec d’une oie.
La philosophie de la critique communiste-communautaire du capitalisme a besoin d’une transformation gestaltique radicale. C’est à la fin de cette opération que l’on devra passer au changement de l’alphabet, et Marx deviendra alors l’un des grands penseurs de cette critique, et non plus l’uni-que, et encore moins l’infaillible. Mais à cette heure, nous ne sommes pas encore en mesure de proposer un changement d’alphabet. On ne nous com-prendrait pas, on nous exclurait aussitôt.
Cinq opérations principales sont nécessaires pour réaliser une transfor-mation gestaltique.
1) Abandonner le prétendu matérialisme dialectique pour passer à une ontologie de l’être social.
2) Abandonner la théorie des cinq stades de l’évolution historique du prétendu matérialisme historique et se diriger vers une conception multilinéaire et non plus absurdement et mécaniquement unilinéaire.
3) Primauté explicite de la philosophie sur la prétendue « science », non pas d’une manière générale, mais exclusivement dans le champ de la société et de l’histoire, et donc du communisme communautaire.
4) Changement de perspective radicale quant à la place de Marx dans l’histoire de la pensée. Passer d’une conception « futuriste » de Marx, selon laquelle Marx aurait projeté Hegel dans le futur en lui ajoutant le futur communiste, à une conception « traditionaliste », selon laquelle Marx est un épisode d’une tradition, née avec les pré-socratiques, et qui oppose cycliquement aux tendances dissolutives et destructrices de l’accumulation, déréglée, anomique, de la richesse individuelle, des tendances contraires de retour à l’association et à la communauté.
5) Reconstruction de l’histoire universelle comparée des peuples, sur le fondement du concept (presque absent chez Marx) de mode de production communautaire, selon ses scissions et ses recompositions toujours différentes.
21. On nous dira qu’il est inutile de mettre à l’ordre du jour l’abandon du ma-térialisme dialectique, puisque celui-ci est désormais un «chien mort » que personne ne défend plus. Ce n’est pas tout à fait vrai. Les systèmes scolas-tiques d’enseignement du marxisme en Chine et à Cuba continuent de le prêcher par inertie, ce qui ne démontre pas seulement de l’inertie, mais une incapacité totale de courage et d’innovation. Le fait que le matérialisme dia-lectique, sous des formes diverses, ait été défendu par Engels, Lénine, Staline, Trotski, Mao, et de nombreux auteurs occidentaux (Sève, Geymonat, Rizakis),freine tous ceux qui croient qu’il serait impossible de penser libre-ment sans commencer par sacrifier aux sacro-saintes autorités. Mais il n’en va pas ainsi. Le grand Hegel a écrit : « Dans l’étude, la voie royale et suprê-me est de penser par soi même ».
En résumant les choses à l’extrême : le matérialisme dialectique est une variante positiviste tardive d’un code conceptuel primitif, fondé sur l’indis-tinction et la fusion du macrocosme naturel et du microcosme social. Mais si les membres des communautés primitives avaient tous les droits de penser ainsi, parce que leur propre survie communautaire dépendait directement et strictement de la nature et qu’elle était absolument inconcevable coupé d’el-le, les positivistes avaient un tout autre motif, qui était la primauté du modèle épistémologique des sciences de la nature dans la science de la connaissance de la société (et depuis Auguste Comte jusqu’à Althusser en passant par Engels, il y a là une continuité tragi-comique).
Bien peu soutiennent toujours la forme traditionnelle du matérialisme dialectique, il est vrai ; mais sa néfaste influence dure encore, dans l’idée que la connaissance et la transformation de la société dériveraient de la structure conceptuelle des sciences de la nature, en unifiant tout ceci d’une manière expéditive et arbitraire sous le terme unique de « science ».
Il n’est pas de compromis possible entre le modèle du matérialisme dialectique et le modèle d’une ontologie (exclusive) du (seul) être social. Une telle ontologie de l’être social n’est en principe ni idéaliste, ni matérialiste, et refuse par conséquent cette dichotomie inutile basée sur la gnoséologie. Par sa nature même, elle requiert une pensée de la totalité expressive (son élément idéaliste), complétée par une méthode d’examen de la structure de tel mode de production (son élément matérialiste). Georges Lukacs en a donné un premier modèle, qui doit à mon avis être modifié et perfectionné, parce qu’il s’efforce encore de maintenir cette inutile dichotomie entre idéalisme et matérialisme, et en outre de « sauver » Marx toujours et quoi qu’il en soit sans jamais reconnaître les erreurs de celui-ci, dont il « charge » le seul Engels, etc. Le meilleur modèle philosophique pour une pensée com-muniste-communautaire est donc une ontologie du (seul) être social, mais nous en sommes hélas encore bien loin.
22. La théorie unilinéaire obligée de la succession des cinq stades de l’his-toire universelle (communisme primitif, mode de production esclavagiste, modes de production féodal et capitaliste, et communisme comme fin de l’histoire) est aujourd’hui discréditée et complètement abandonnée. Il s’agit là d’une occidentalisation eurocentrique impropre, arbitrairement étendue au monde entier, et qui devait servir (elle l’a fait pendant au moins un demi-siècle), d’idéologie de légitimation de l’universalité du modèle russo-bolché-vique de révolution socialiste. Il ne fut pas difficile d’y ajouter le « mode de production asiatique », parce qu’il était lui-même induit de l’Ecriture Sainte : les Grundrisse (Fondements de la critique de l’économie politique) de Marx. On ajouta ensuite les modes de production « antico-oriental » (Egypte, Mésopotamie), « mesoaméricain » et «africain ». On parla de «mode de production tributaire » (Samir Amin) et de « despotisme communautaire » (Jaffe). Les études historiques de Perry Anderson finirent par faire sauter le schéma stalinien, et l’on pourrait évidemment continuer.
Et cependant, bien qu’elle ait perdu sa légitimité, la théorie des cinq stades a continué d’exercer son influence négative, pace que le sens commun de ce qui reste des militants communistes « de base » est toujours caractérisé par l’économisme, par le déterminisme, et par la téléologie obligée. L’échafau-dage des cinq stades s’est formellement écroulé, mais il en demeure l’éco-nomisme, quant au passage d’un mode de production à un autre, et le finalis-me idéologique de la pacification finale des luttes historiques dans un com-munisme communautaire sans conflits. Le schéma de Staline est aboli, mais il reste l’idée de la « grande narration » (Lyotard) et de la sécularisation de l’eschatologie judéo-chrétienne dans le langage de l’économie politique (Lö with).
Il faut par conséquent mener à son terme le processus d’abandon de ce schéma, et déclarer ouvertement que ce n’est pas la règle qu’il y ait une suc-cession « progressiste » évolutive du cours de l’histoire; qu’il n’est rigou-reusement pas de science de l’histoire qui soit comparable, fût-ce par ana-logie, aux sciences naturelles et à la médecine; et qu’il peut exister tout au plus, sans qu’on puisse rien prétendre d’autre, une philosophie universaliste de l’histoire sur une base ontologique qui utilise une méthode d’analyse déduite de la théorie de Marx et de ses catégories. On ne peut absolument pas aller au-delà. Comme le chien d’Esope, qui tenait dans sa gueule un morceau de viande, le lâcha pour mordre son reflet qu’il voyait dans l’eau, et de la sorte n’en mangea aucun au lieu de deux, de même, si l’on rejette la philo-sophie universaliste et ontologique de la communauté pour atteindre à la prétendue » science », non seulement on n’aura aucune science, mais on perdra aussi la philosophie qu’on avait déjà.
Mais tout cela demande à être approfondi.
23. Après une réflexion de plus de quarante années, je suis arrivé à la conclu-sion bien méditée que la connaissance philosophique est supérieure à la connaissance dite « scientifique », et qu’on ne doit pas avoir la moindre honte de le revendiquer ouvertement. Evidemment que cela sonne comme un ridicule blasphème réactionnaire et irrationaliste dans les milieux dits « mar-xistes », mais tout autant d’un point de vue individualistico-capitaliste pur, lequel sur ce point (et ce n’est pas un hasard) est en général plus « mar-xiste » que les marxistes même les plus extrémistes.
Cette formulation est de toute façon ambiguë et incorrecte ; en ce qui me concerne, j’appartiens à l’école philosophique qui considère qu’il existe une « science philosophique » (chez Aristote, Hegel, et Marx lu selon les codes d’Aristote et de Hegel), laquelle s’oppose aux philosophies basées sur la souveraineté indécidable (19) des opinions, au relativisme, à l’empirisme, au nihilisme, etc. Mais on emploie ici le langage ordinaire, où la philosophie est considérée comme une forme d’interrogation discutable sur la signification de la totalité sociale, et la «science » comme la méthode des sciences naturelles modernes depuis le XVIIème siècle, avec toutes les transitions et les lacunes internes de la médecine, de la pharmacologie, de l’astronomie, de la physique, de la chimie, de la biologie, de la génétique, etc.
Il s’agit de briser un lieu commun, qui s’est confirmé à partir du positivis-me d’Auguste Comte entre 1830 et 1850, et qui a produit dans la suite, entre 1875 et 1895, le code théorique du marxisme comme « science », que tous les marxistes conservent comme on garde l’uniforme militaire d’une guerre finie depuis longtemps. Je me rends parfaitement compte de toutes les raisons de la pesante inertie de ces habitudes qui ont la vie dure.
En premier lieu, il semble aussitôt que l’affirmation de la supériorité de la connaissance philosophique sur celle dite scientifique (élaborée en son temps pour donner réponse au problème de la connaissance de la nature, et seule-ment de cette dernière) soit un retour à des formes de superstition, du passéisme, du conservatisme traditionaliste, etc. Quoi! Ne sommes-nous pas dans la modernité ! Comment peut-on dire de telles choses dans la moder-nité! Devant pareille tautologie, qui se donne pour un argument rationnel, l’envie me vient de répondre comme fit en son temps Roland Barthes : « Un moment vint où il m’est devenu subitement indifférent d’appartenir plus ou moins à la modernité ! » On ne pouvait mieux dire. L’orthodoxie capitaliste, l’hérésie communiste, et l’hérésie de l’hérésie trotskiste et maoïste ont toutes trois en commun la même base dogmatique : le fétichisme historiciste du progrès irréversible de la modernité, pris comme un article de foi religieuse. Mais le temps est venu de défier les faux dieux.
En second lieu, on a souvent une peur obscure de tomber dans des posi-tions irrationalistes de mépris pour ce qu’on appelle « la science ». Mais c’est une peur infondée, induite par la pression conformiste du scientisme qui do-mine autour de nous (ici je citerai Marx : les idées dominantes sont celles de la classe dominante). La science moderne de la nature est une idéation cogni-tive merveilleuse, incomparable pour ce qui est des sciences de la nature et l’innovation et le perfectionnement technologiques, incomparable à l’égard de la nature supposée « séparée » de la sphère humaine et sociale. Mais cette merveille devient absolument inutile en ce qui concerne l’orientation de l’homme dans le monde, et la légitimation d’un choix communautaire contre l’individualisme déréglé. La connaissance scientifique est ici non seulement inutile, mais encore illusoire, parce qu’elle fait imaginer ce qui n’est pas, ce qui par nécessité décevra tôt ou tard: que la méthode scientifique pourrait nous orienter, touchant non seulement ce qu’on appelle les « valeurs », mais aussi l’évaluation de la nature de la totalité expressive de la vie humaine, privée et/ou communautaire.
Le tir de barrage scientiste sera terrible, on se répandra en injures et en invectives (métaphysique, passéisme, nostalgie, traditionalisme, conservatis-me, anti-modernité, anti-postmodernité, irrationalisme, etc.). Disons-le très simplement : peut-être que ceux qui sauront résister et contre-attaquer avec succès à cette batterie d’injures « modernes » seront capables de contribuer à une nouvelle manière de penser. Mais celui qui s’épouvante et recule démontre qu’il ne parvient pas à comprendre la nature du problème culturel qui est devant nous.
24. On peut dire qu’en plus d’un siècle, la marxologie a bien travaillé. La grande majorité des inédits de Marx ont été publiés au siècle dernier. Il en reste, mais il est improbable qu’une image complètement nouvelle de Marx puisse sortir de la marxologie. Certains points sont désormais bien connus. Nous savons que l’on ne peut trouver chez Marx la justification du matéria-lisme dialectique. Nous savons qu’on ne peut y trouver la théorie des cinq stades préfixés du développement historique. Nous savons que la théorie de la coupure épistémologique et de la suppression de la catégorie d’« aliénation » (20) n’a aucune preuve philologique. Nous savons que Marx n’a jamais rompu avec Hegel, mais qu’il l’a métabolisé de diverses manières, et que dans ses dernières années, il alla jusqu’à se « réconcilier » complètement avec la philosophie de Hegel. Nous savons, par conséquent, qu’un marxisme anti-philosophique et anti-hégelien sont une légende née d’un positivisme attardé. Nous savons encore beaucoup d’autres choses.
Le secret de Marx est toutefois absolument indépendant de ces disciplines nécessaires, mais tout à fait secondaires et auxiliaires, que sont la marxolo-gie, la philologie, et la citatologie justificative. Dans l’optique d’un séminaire universitaire sérieux et bien mené, elles sont les cent pour cent du problème. Dans celle d’une insertion « métaphysique » de Marx au sein d’une perception globale de l’histoire universelle prise comme un unique concept transcendantal réflexif (21), elles n’en font pas cinq pour cent, elles ne sont rien. Il s’agit en effet de choisir entre deux images holistes (22) de Marx. Marx est-il un penseur « futuriste », qui futurise Hegel et ouvre une période qualitativement nouvelle de l’histoire de la philosophie (et donc de l’« histoire historique »), ou bien un penseur « traditionaliste », qui se relie d’une façon nouvelle à une tradition antique remontant véritablement aux présocratiques grecs ( sans parler de leurs équivalents indiens et chinois): la tradition de la réaction solidariste et communautaire qui se produit justement pour contrecarrer la décomposition privative et mercatique ?
Sur ce point l’exégèse marxologique est muette, parce qu’il est possible de tirer du texte même de Marx autant d’éléments (et d’interminables chaînes de citations) pour soutenir la thèse futuriste que la thèse traditionaliste. Et je veux bien admettre encore, non seulement que la thèse futuriste correspond mieux aux intentions subjectives de Marx, mais qu’elle ressort davantage de toute une liste de citations. Et pourtant, selon moi, si on ne rejette pas cette thèse, la crise de la validité et de l’utilité politiques et historiques de la pensée de Marx pour le présent ne pourra jamais être surmontée. Comprendre ce point crucial constitue désormais quatre vingt pour cent du problème que certains appellent celui de « Marx aujourd’hui » (23).
Il semble à première vue que l’interprétation « futuriste » de Marx soit une simple « futurisation » dialectique de la philosophie de l’histoire de Hegel (comme par exemple chez Ernst Bloch). Cela est seulement en partie vrai, et en toutes choses, en philosophie surtout, une demi-vérité donne une entière erreur. En réalité, la thèse de la « futurisation » de Hegel par Marx suppose une évaluation fausse du même Hegel, qui fait de lui, en un certain sens, le couronnement suprême de la philosophie des Lumières. Cela n’est pas ce que je pense. Hegel n’eut certes pas à l’égard de la philosophie des Lumières une attitude de rejet ( comme tout un courant, qui va de Burke et de Maistre jusqu’à Horkheimer et Adorno) ; il l’a traitée selon sa méthode caractéristi-que de « Aufhebung » ( dépassement, où ce qui est supprimé est conser-vé).Toutefois, l’aspect principal de sa Aufhebung des Lumières fut le dépas-sement, et non la conservation, c’est à dire : la critique des fondements individualistes, et du « mauvais infini » du mythe du progrès.
Au lieu que l’interprétation futuriste de Marx reste entièrement dans la sphère d’une systématisation de plus en plus dure et cohérente du mythe bourgeois du progrès, mythe idéologiquement apparenté au nouveau primat du profit (d’un type linéaire), qui se substitue au vieux primat de la rente (d’un type cyclique, parce qu’il était lié aux saisons et aux récoltes). La structure ontologique du progrès se rapporte à l’infini et à l’illimité, exactement comme celle à laquelle s’opposèrent les premiers philosophes grecs (Anaximandre, Pythagore, etc.), qui virent justement dans une telle structure ontologique la cause de la dissolution individualiste, privative, et chrématistique de la société. En outre, le futurisme de la théorie du progrès va de pair avec l’idée de l’accélération de l’histoire (excellemment étudiée par Kosellek), laquelle se rapporte au positivisme, qui voit dans la science et son application les seuls instruments pratiques possibles pour réaliser sûrement l’accélération du temps.
Cependant, la philosophie de Hegel, prise dans son ensemble, doit être con-sidérée comme une réaction communautariste au précédent individualisme des Lumières (bien qu’il soit évident qu’elle est communautaire-bourgeoise, et non communautaire-communiste). Si au contraire on fait de Hegel le grand continuateur et de sa pensée la synthèse des Lumières, et que Marx lui soit ( correctement) relié, il s’ensuit que la pensée de Marx apparaît comme la synthèse suprême des mêmes Lumières : depuis le mythe du progrès jusqu’à l’empirisme fondé sur l’individualisme : nous avons là toutes les conditions qui préparent la réabsorption de l’héritage marxiste dans les conceptions du monde progressistes-bourgeoises ; et c’est ainsi que l’inter-prétation futuriste de Marx conduit dialectiquement au suicide de la dialec-tique.
L’interprétation traditionaliste de Marx que je propose renverse complète-ment la perspective, et elle n’est possible que sur la base d’une radicale transformation gestaltique. Dans l’abstrait, les conditions seraient favo-rables, à partir d’au moins deux facteurs historiques : la dérive destructrice sans limites de l’actuel hyper-capitalisme post-bourgeois et post-prolétarien, et d’autre part le bilan de la faillite intégrale du marxisme historique « futuriste » participant des Lumières et du positivisme ; mais en réalité il n’en est rien, parce que les quatre vingt-quinze pour cent de la communauté intellectuelle « marxiste » ne sont pas disposés, actuellement et pour bien longtemps encore, à abandonner le vieux modèle. Vico aurait parlé de « l’or-gueil des doctes » ; Ennio Flajano (24) aurait dit « La situation est déses-pérée, mais pas sérieuse ».
Et pourtant, c’est dans la pensée individualiste de Thomas Hobbes, ouvertement anti-aristotélicienne, dans l’empirisme de John Locke, dans la critique corrosive de Voltaire, dans l’économie politique de David Hume et d’Adam Smith, sans fondements philosophique et communautaire et ne reposant que sur soi-même, etc., que réside l’innovation décisive de la modernité. Et c’est à une telle nouveauté empirico-individualiste (à laquelle, en dernier résultat, appartient le criticisme de Kant lui-même), que Hegel et Marx répondent, par un mouvement conservateur et communautaire, qui procède en dernière analyse de la tradition philosophique grecque.
Si le propos est à peine entamé, je crois que par nature il est déjà compré-hensible.
25. Pour résumer les choses à l’extrême, nous pouvons dire que la stratégie de Marx concerne la communauté humaine, et sa tactique la classe proléta-rienne. Ou autrement dit : le communautarisme est la stratégie, la lutte des classes la tactique. Le mouvement communiste a transformé la tactique en stratégie – ce qui était certainement inévitable dans des conditions d’alors ; c’est bien pourquoi je n’entends pas le moins du monde me laisser aller à une critique facile et pédantesque. La cause dernière de sa provisoire faillite historique consiste précisément dans la dynamique dissolvante de cette fin tactique prise pour la fin stratégique. Si l’on comprend la société commu-nautaire comme une radicalisation despotique de la lutte des classes (comme Staline, la Bande des quatre, Pol Pot, etc.) il est inévitable que ne naissent tôt ou tard des mouvements de masse de contre-révolution sociale restauratrice, dont les couches moyennes ( les anciennes et les nouvelles) sont la base de classe.
Le passage théorique de la lutte des classes au communautarisme n’efface donc pas les bonnes raisons historiques et sociales de celle-ci; il les insère seulement dans une nouvelle conception de l’histoire plus cyclique et moins progressiste (c’est-à-dire, plus grecque, et participant moins des Lumières), et il ne vise surtout pas à rompre avec la meilleure part de l’héritage de Marx. Par exemple, le concept marxien de mode de production reste valable, et jusqu’à ce jour non surpassé (si on le débarrasse de ses déviations économis-tes, historicistes, déterministes, mécanistes, qui toutes finalement se ramènent au modèle positiviste du primat d’une science sans fondements philosophiques, et à la saint-simonienne « administration des choses »). C’est pour cela qu’il faut légitimer le concept de « mode de production commu-nautaire », qui prévaut aussi bien au concept de « communisme primitif » qu’à celui de « communisme du futur » -- ce rêve individualiste, ou ce cau-chemar, de la disparition de la famille, de la société civile et de l’Etat. Personne ne l’a encore fait: cela ne signifie pas qu’on ne puisse pas le faire, ouvertement et méthodiquement.
26. Deux mots, pour terminer, sur le marxisme italien. Il a pratiquement dis-paru de la scène publique depuis vingt ans. Je crois qu’à l’étranger, l’on n’a pas compris à fond, même chez les italianistes, la puissance dissolvante du vieux PCI, qui a agi sous une forme narcissique, avec des personnages tragi-comiques et grotesques comme Armando Cossuta et Fausto Bertinotti, sans parler de la « reconversion » médiatique d’anciens extrémistes comme Soffri, etc., en propagandistes de l’empire américain et du sionisme. Le pays de Labriola et de Gramsci est aujourd’hui l’un de ceux où l’héritage de Marx est plus ridiculisé et marginal. Je sais bien qu’il en est de même en France, mais à un moindre degré, je le crois.
Qui est aujourd’hui le plus grand marxiste italien vivant ? Question de café du commerce, mais si je devais y répondre, je dirais que c’est Domenico Losurdo. Losurdo maintient la relation entre Hegel et Marx (bien qu’il la présente comme du réalisme politique et une justification historique), la critique de l’impérialisme, la légitimité géopolitique de la défense contre l’impérialisme américain, la condamnation du sionisme, etc. Il s’agit là d’aspects «fondamentaux», et à cet égard il serait souhaitable que s’achevât l’époque tragi-comique de Bertinotti, ce destructeur confus et narcissique. Et Lossurdo et ses idées sont, honnêtement, le « moins pire ».
27. Cela dit, sans aucune hypocrisie et fausse modestie, je ne cache pas que je me considère comme un penseur dans l’ensemble meilleur et plus profond que Losurdo, par une meilleure « radicalité » critique touchant l’héritage phi-losophique du passé (les grecs, Hegel, et Marx surtout). C’est pour cette raison qu’abstraction faite de ma reconnaissance par autrui (qui est nulle, de toute façon), je devrais dire que le meilleur penseur italien d’orientation marxiste, c’est moi. Tu comprends bien qu’il n’y a ni paranoïa ni mégalo-manie dans cette conviction, mais une simple évaluation du travail que j’ai accompli depuis presque trente ans. Les textes parlent d’eux-mêmes, si on veut bien les lire.
Cependant, je suis condamné à la solitude et à l’exclusion. Je me moque de la diffamation, elle m’est indifférente ; mais ce qui, psychologiquement, ne m’est pas indifférent, c’est le manque de toute défense publique de la part de ceux qui me connaissaient bien, comme Lossurdo lui-même, qui n’a pas eu un mot en public, mais pas un seul, pour me soutenir, bien qu’en privé, par téléphone, il m’ait assuré plusieurs fois de son insignifiant et « platonique » soutien. Il n’y a pas d’issue. Je ne peux renoncer à des convictions qui sont les miennes, qu’elles soient justes ou erronées, pour pouvoir accéder à l’au-dience du politiquement correct de gauche. Le politiquement correct de gauche veut à tout prix qu’on lui dise que la modernité est irréversible, que Marx est quelqu’un de bien parce qu’il est placé à l’avant-garde du futu-risme, qu’il ne reste plus rien des grecs si ce n’est des sujets d’études pour doctes à perruque poudrée, que Berlusconi est l’équivalent médiatique du fascisme éternel, que la dichotomie droite/gauche est un dogme indiscutable et un article de foi, que l’antifascisme est toujours valable en l’absence même évidente de fascisme, que la religion n’est qu’un truquage des prêtres fondé sur l’ignorance des simples, que la géopolitique est une invention des fas-cistes, qu’il suffit d’ un contact avec Alain de Benoist pour être contaminé, etc.
Comme tu le vois, si j’acceptais ce code traditionnel du politiquement correct, peut-être pourrais-je « retourner » partiellement dans le cirque (ou le milieu, comme disent les marseillais), mais je devrais me suicider en tant que penseur radical et original.
Tu m’excuseras de ce texte trop long. Mais j’ai tenu à l’écrire, cher B., pour perfectionner ta connaissance de ma pensée, dont tu as déjà une idée puisque tu m’as traduit. Je t’en suis reconnaissant au delà de ce que tu peux imaginer, parce que, pour des raisons personnelles, je m’estime encore plus attaché à la France qu’à l’Italie.
Je etc.
Costanzo.
Notes :
* On aura noté ce terme employé par Costanzo Preve, s’accordant parfaitement avec sa conception d’une « ontologie de l’être social » qui n’est « ni matérialiste, ni idéaliste ». v. § 21
1) Preve emploie l’adjectif. mercatistico, néologisme qu' il dérive de " mercatistica", nom qui correspond en italien à la " mercatique", ce mot que les défenseurs du français proposent pour
" marketing", mais qui signifie plutôt "l'étude de la commercialisation", que la " commer-cialisation"; mais il donne à "mercatiste" ( mercatistico) un sens très large , qualifiant par ce néologisme, la tendance du marché à s'accroître et à dominer sur la société, à devenir une économie artificielle qui prévaut contre tout.
2) Ce dernier caractère provient de la philosophie de Kant. V. infra, à propos de Kant.
3) Allusion au subjectivisme actualiste de Giovanni Gentile (1875-1944).
4) Le livre de Ci Ji-Wei De l’utopie à l’hédonisme, dialectique de la Révolution en Chine », traduit en italien en 2002, n’existe pas en français, mais on peut prendre connaissance des idées de l’auteur par un article paru en 2008 dans le n° de janvier de la revue « Diogène » : La crise morale de la Chine post-maoïste
5)1973-76. Cette période coïncide très exactement avec les trois dernières années de la vie de Mao Zedong. Celui-ci, dans ses derniers mois, déjà à demi paralysé, lança encore, au prin-temps de 1976, une campagne de « critique des vestiges du droit bourgeois dans le régime socialiste » et rappela que « la bourgeoisie était dans le parti ».
6) « Il y a autoréférence quand le discours se prend lui même comme référent ». (Diction-naire de philosophie de Christian Godin, Fayard, 2004)
7) (1917-1994) Important essayiste, poète, critique littéraire et traducteur italien. Fut lié entre autres à Eugenio Montale et à Pasolini. Traducteur de Ramuz, de Proust, de Brecht, de Goethe, de Simone Weil, etc.
8) Allusion à la « ruse de la raison » selon Hegel.
9) Maxime chinoise taoïste en quatre caractère (Yin fen wei er), que Mao Zedong aimait à répéter dans ses articles, discours, et essais philosophiques, pour résumer et en quelque sorte « siniser » la dialectique marxiste. (v. De la contradiction (1937), De la juste solution des contradictions au sein du peuple (1957), etc, in Cinq essais philosophiques, Editions en langues étrangères de Pékin, 1971).
10) Evidemment, en français dans le texte.
11) Gianni Vattimo, (né en 1936 à Turin) est un philosophe et homme politique italien, ancien élève de Luigi Pareyson. Il a introduit en Italie la pensée de Karl Löwith et de Hans-Georg Gadamer. Chargé de la chaire d'herméneutique philosophique à l'Université de Turin, il est considéré comme un représentant typique de la post-modernité. Ancien membre du Parti Radical Italien, il a été de 1999 à 2004 membre du Parlement européen, élu sous les couleurs des Démocrates de gauche. Il est réélu en 2009 sous l'étiquette de l'Italie des valeurs.
12) Gender studies (études de genre) :« Apparues dans les années 70 aux États-Unis, les gender studies ont profondément renouvelé l'étude des rapports homme/femme en posant que la différence de sexe est une construction sociale. » (Sandrine Teixido, in « Sciences humaines.com »)
13) Le Parti Communiste Italien s’est dissous lui-même en 1991 pour devenir le Parti des Démocrates Sociaux.
14) En italien: « Mains propres »
15) Mario Segni (né en 1939) en Sardaigne, est un homme politique italien issu de la Démocratie chrétienne. Député européen de 1999 à 2004 dans le groupe Union pour l’Europe des Nations, après avoir fondé « Le Pacte », allié avec l’ « Alliance nationale » en 1999. En 2003, il a préféré s’allier avec un Libéral-démocrate, Carlo Sco-gnamiglio, pour fonder le Parti des Libéraux-démocrates, qui a repris le symbole du Pacte.
16) Hosea Jaffe est né au Cap en 1921. Mathématicien, militant anti-apartheid, il est l’auteur de nombreux livres sur l’histoire de l’Afrique, le colonialisme et le système économique mondial. Il a enseigné en Afrique du Sud, au Kenya, en Éthiopie, en Grande-Bretagne et au Luxembourg. En 1943, il a été l’un des co-fondateurs du Non European Unity Movement, organisation anti-apartheid et anti-impérialiste.
17) L’épistémologie de Thomas Kuhn (1922-1996), s’attache au problème du remplacement par un paradigme supérieur des théories scientifiques imposant leur cadre et leur contenu pendant un temps déterminé ; paradigme est un terme platonicien synonyme d’ « idée », de « forme », et repris au sens de « modèle ».
18) Selon la Théorie de la forme, élaborée par Köhler (+1967), Wertheimer (+1943) et Koffka (+1941), une perception n’est pas un ensemble de sensations agglomérées, mais d’emblée la saisie d’une totalité – ainsi que le montrent les illusions d’optique.
19) Se dit proprement en logique classique d’une proposition dont on ne peut établir ni le caractère contradictoire ni le caractère non-contradictoire avec l’ensemble de la théorie dont elle fait partie. Derrida en a fait l’outil de sa « théorie et pratique de la déconstruction », l’indécidabilité perdant son caractère de singularité logique pour devenir la règle commune des mots et du sens. L’équivoque et le flottement des termes subvertissent radicalement la hiérarchie du Logos.
20) C ‘est la théorie de Louis Althusser
21) Souligné par le traducteur.
22) Terme à prendre ici dans un sens logique et méthodologique de « relatif au tout, à l’en-semble » (de l’œuvre).
23) C’est l’objet, par exemple, de la revue française « Actuel Marx ».
24) Ennio Flajano (ou Flaiano) (1910-1972) a notamment collaboré aux scénarios de I Vitelloni, La dolce vita, et Huit et demi, de Federico Fellini. Une de ses boutades est parti-culièrement célèbre en Italie : « En Italie, les fascistes se divisent en deux camps : les fascistes, et les antifascistes ». Pasolini l’a reprise allusivement dans les titres de deux articles sur « Le fascisme des antifascistes » réunis dans ses Ecrits Corsaires (1975).
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29/07/2009
« Ribellione ». Le nostre posizioni
« Ribellione » è una rivista bimestriale, che diffonde idèe politiche e metapolitiche dall’orientamento socialista-rivoluzionario.
Le nostre posizioni :
Ci rinteniamo eredi dell’esperienza internazionalista del movimento operaio, strutturato come tale in modo conscio fin’dalla fondazione della Prima Internazionale; del socialismo francese con tutta la propria diversita – Proudhon, Blanqui, La Comune di Parigi, Sorel, ecc. - ; del sindicalismo rivoluzionario, del nazional-bolscevismo (Niekisch), e più in genere, di tutti I socialismi attecchiti nelle patrie loro.
Propugnamo un’socialismo rispettoso dell’identita di ogni popolo, in un’Europa strènua e consapevole della comunita della sua origine e del suo destino.
Respingiamo il nazionalismo accentratore e il suo caricaturale contrapposto: il micro-nazionalismo separatista.
Allo scopo di attuare un socialismo proprio autentico ed originale, respingiamo il socialismo burocratico di Stato ; propugnamo invece ogni forma di democrazia partecipatoria organica diretta, in uno Stato di tipo federalista.
Rinteniamo una parodia di sovranità europea la cosidetta Europea di Bruxelles, essendo agli antipodi dell’attuazione reale del principio di sussidiarità – mezzo unico del risorgimento di un legame sociale vero e proprio.
La nostra scelta è quella di un’antirazzismo differenziatore.
L’immigrazione su vasta scala è una sciagura, tanto nei confronti dei popoli europei, quanto degli immigrati sradicati, vittime proprie del capitalismo mondialistico, la cui finalità unica rimane il suo processo d’incremento del maggior valore e di finanziarisazione.
Il nostro modello è quello di una Europa federale, rispettosa verso le nazioni, i popoli, le regioni ; una Europa dalla vocazione imperiale, niente affatto imperialistica.
In tutto il mondo appogiamo la causa dei popoli contro l’omogeneizzazione e lo sfruttamento capitalistico, di cui gli Stati Uniti costituiscono certo il veicolo maggiore e precipuo, ma non l’unico.
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13/07/2009
"Ribellione" in Italiano
Questo blog è la mostra della rivista francese « Ribellione » (Rébellion), pubblicata a Tolosa, espressione dell’ Organizzazione Socialista Rivoluzionaria Europea. Apriamo ormai una rubrica in italiano, dopo quella in spagnolo. Questa imprésa è modesta ; mira solo a diffondere le nostre idee dentro i paesi europei, allo scopo di federare oppositori alla dinàmica del dominio capitalistico. L’Italia é stata uno storico baluardo della resistènza del proletariato a tale dominio; l’ Italia è erède di una tradizione di lotte esemplari della classe operàia ; speriamo che le nostre tesi vi desteranno interesse, nell’ intento di svolgere il movimento per toglier via le condizioni tuttora esistènti.
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Entretien avec Costanzo Preve
Risposte di Costanzo Preve a sette domande poste dalla rivista francese « Rébellion » ( traduction en français dans notre numéro 37) .
R/ Tu respingi la pertinenza della dicotomia Sinistra/Destra. E sei stato, sembra, vilipeso per questo in Italia. Puoi spiegare il tuo pensiero in proposito, insieme con la genesi di questo pensiero? E come bisogna fare per tradurre politicamente la critica di questa dicotomia ?
Gli attacchi cui sono fatto oggetto in Italia (insieme alla rottura, o all’indebolimento di amicizie decennali) non hanno potuto minimamente modificare il mio programma di lavoro e di ricerca, che è di cento et ottanta gradi, e quindi non può accettare il ricatto di chi ti vuole imporre che sia solo a noventa gradi. Chi cerca vie nuove deve sempre pagare dei prezzi, e ritengo i prezzi da me pagati minimi. In quanto insegnante in pensione, non ho dovuto pagare prezzi economici (espulsioni politiche, licenziamenti, mancate assunzioni, eccetera). Ancora una volta, ha funzionato il principio marxista per cui la libertà spirituale è possibile soltanto sulla base di una precedente libertà materiale, in questo caso il funzionariato pubblico.
Gli attacchi hanno avuto tre ragioni essenziali. Primo, la mia negazione argomentata della pertinenza attuale (in particolare in Italia, in cui la dissoluzione del comunismo ha comportato un’adesione totale al neoliberalismo ed all’impero USA sconosciuta nel resto d’Europa) della dicotomia Destra/Sinistra como criterio attuale di orientamento nella grandi questioni politiche, economiche, geopolitiche e culturali. Secondo, l’aver concesso interviste e collaborazioni a riviste e periodici considerati pregiudizialmente di « destra », fra cui le riviste in lingua francese di Alain de Benoist. Colgo l’occasione per dire che non considero le riviste di de Benoist di « destra », ma le considero anzi riviste di critica all’ attuale evoluzione « mercatistica » della destra. Dovessi definirle in una parola, le definirei « riviste critiche ad apertura di cento ed ottenta gradi ». Terzo, l’aver pubblicato alcuni libri senza aver fatto nessuna distinzione fra editori considerati di « sinistra » (Bollati Boringhieri, Citta’del Sole) ed editori considerati di « destra » (Settimo Sigillo, All’insegna del Veltro). Sapete bene come è difficile pubblicare se si è al di fuori di circuiti universitari o politici « protetti ». Io ho sempre e solo chiesto due cose : nessuna richiesta di denaro per la pubblicazione, e nessuna censura esplicita o implicita. Mi sembrava di avere, per così dire « giocato pulito ».
Così non è stato. In modo un pò ingenuo, pensavo che così come un giudice si esprime con le sue sentenze, ed un medico con i suoi referti e le sue diagnosi, nello stesso modo un filosofo si esprime con le sue posizioni, del tutto indipendentemente del colore della copertina del libro in cui queste posizioni sono espresse. Ovviamente così non è. Nel mondo manipolato della paranoia politica ed identitaria di appartenenza tribale, le posizioni filosofiche non contano nulla, e solo il colore della copertina conta. Si tratta di un problema che non ha soluzione, perchè il problema stesso pretende di essere la sua soluzione, il che comporte un circolo vizioso. Io sono un pensatore certamente originale, ma anche molto modesto. Sono sicuro che se pensatori como Sartre o Althusser avessero pubblicato con editori considerati « impuri », sarebbero stati anche loro silenziati.
Il mio pensiero in breve è questo : la dicotomia Destra/Sinistra ha nel complesso espresso un insieme di vere contraddizioni politiche e sociali, grosso modo nei due secoli 1789-1989 ; questa dicotomia tende però a venir meno con l’ingresso in una nuova fase del capitalismo, che Hegel avrebbe definito « speculativa » e non piu dialettica, in cui la struttura delle classi antagonistiche c’è ancora, ma non può più essere connotata come conflitto fra una borghesia ed un proletariato nel vecchio senso del termine ; e pertanto, se è vero che ci troviamo in una inedita fase di un capitalismo assoluto postborghese e postproletario, e quindi anche politicamente postfascista e postcomunista, in cui si è rotta la vecchia alleanza fra intellettuali e salariati (Boltanski-Chiapello), allora è inevitabile che tutte le vecchie categorie politico-culturali dicotomiche vengano riscritte e ridifinite ; ma tutto questo è impedito, per ora, dal potere inerziale di rallentamento delle strutture istituzionali delle tre strutture di dominio (ceto politico di amministrazione sistemica privo di coscienza infelice; circo mediatico di manipolazioni spettacolare ; clero intelletuale universitario di filosofia e di scienze sociali) ; questo rallentamento non può durare per sempre, ma può durare ancore per tutto il corso della vita terrena di chi è oggi entrato nella terza età, e forse anche addirittura della seconda età. La genesi del mio pensiero deve essere ricostruita da altri, perchè ogni punto di vista autobiografico su se stessi è per definizione privo di credibilità. Ma se devo rispondere a ogni costo, direi che la genesi deve essere trovata in un processo di autocritica radicale interno al punto di vista rivoluzionario marxista di estrema sinistra cui ho aderito in gioventù, nei tre paesi in cui ho vissuto e di cui conosco bene la lingua e la situazione politica (Italia, francia, Grecia). Questa autocritica politica radicale, durata decenni, si è ovviamente accompagnata ad inevitabili delusioni esistenziali ed alla rottura, a volte tragica ed a volte comica, ma sempre tragicomica, di precedenti appartenenze e solidarità politiche e culturali. Ma qui la mia esperienza personale raggiunge l’esperienza dei membri della mia generazione politica, quella del quarantennio 1960-2000.
Cosa bisogna fare per tradurre politicamente la critica di questa dicotomia ? E’ noto che la principale difficoltà pratica e quotidiana sta nell’essere confusi e diffamati come « fascisti infiltrati » nel corpo della sacra vera sinistra politicamente corretta. Costoro non sono certamente i nemici principali, ovviamente, ma sono gli avversari diretti immediati che di fatto impediscono la comunicazione politica e la legittimazione culturale pubblica di questa posizione. A breve termine, sulla base di una valutazione realistica, priva di inutili lamentele, necessariamente impotenti, ritengo che purtroppo non siano ancora maturate le condizioni politico-culturali per il superamento di questo ostacolo. Vorrei ovviamente che non fosse così, ma per ora è così. Mi rendo perfettamente conto che ci si logora assai presto quando il novantacinque per cento dei propri sforzi deve essere concentrato a chiarire che non si è dei seguaci di Barbablù, Landru, il marchese di Sade e Jack lo Squar-tatore.
Così come l’illuminismo fu la precondizione culturale indispensable per la successiva formazione di organizzazioni politiche, nello stesso modo ritengo che sia necessario oggi un nuovo equivalente del vecchio illuminismo, che porti alla luce un nuovo scenario simbolico-filosofico, che faccia a poco a poco svanire non soltanto la dicotomia Destra/Sinistra, ma anche tutto il circo delle dicotomie che la accompagnano (Ateismo/Religione, Progresso/Conservazione, Borghesia/Proletariato nel vecchio significato del termine, Fascismo/Antifascismo, Comunismo/Anticomunismo, eccetera). Queste dicotomie, oggi, non sono semplici errori, ma si sono incorporate in strutture materiali di potere e di legittimazione. La forza d’inerzia di queste strutture parassitarie è enorme.
E tuttavia, questa non è una ragione per ritirarsi alla vita privata, o ad una simplice testimonianza culturale, pure, necessaria. Il « militante » di questa posizione deve, purtroppo, sapere che l’ostacolo simbolico della diffamazione sara’devastante. Eppure, se non fosse così, vorrebbe dire che la propria proposta è inocua ed irrilevante. Ma proprio perchè questa proposta non è innocua ed irrilevante, ma è potenzialmente esplosiva e dirompente, proprio per questo ci si può aspettare che il « vecchio mondo » simbolico lotti con le unghie e con i denti prima di scomparire.
R/Che significa essere « marxisti » oggi ? E che significato ha la tua posizione di « comunista critico » ?
Dichiararsi « comunista critico » è una tautologia, in quanto è impossibile non essere insieme comunista e critico nello stesso tempo. Come ha correttamente rilevato Emmanuel Renault, il pensiero di Marx si basa sull’idea di critica come suo fondamento essenziale, da cui (ma forse questo Renault non lo sostiene) deriva che la sua stessa pretesa di veritativita’ deriva di lì . Si tratta peraltro di quello che Kant chiama giudizio analitico, in cui il predicato è contenuto nel sogetto. Il comunista è critico come il corpo è esteso.
E allora –si dirà- come si spiega che storicamente la stragrande maggioranza dei comunisti reali (non quelli platonicamente ideali o weberiamente idealtipici) non sono stati critici, ma sono stati a-critici, e cioè dogmatici ? Lo stesso Marx lo spiega. Quando una teoria originariamente critica viene ideologicamente incorporata in strategie di legittimazione del potere, si innesta la falsa coscienza necessaria degli agenti storici, che viene « organizatta » in strutture amninistrative di potere. Si tratta di un fenomeno dialettico, che una simplice lettura della Fenomenologia dello Spirito di Hegel permette di concettualizzare. L’idea di critica si rovescia dialetticamente in ideologia di legittimazione, non appena la falsa coscienza necessaria degli agenti storici se ne impadronice, se la situazione storica oggettiva non consente una elaborazione comunitaria maggiormente adeguata alle possibilita’ storiche concrete.
Personalmente, più che un « marxista critico », io sono un marxista che cerca, quasi
sempre invano, di essere critico. A volte ci riesco, ed a volte invece no.
In quanto a cosa significa essere marxisti oggi, bisogna chiederlo ai vari marxisti ancora in attivita’. Io posso rispondere solo per me stesso, utilizzando necessariamente la paroletta « io », che lo srittore italiano Carlo Emilio Gadda definì una volta “il più odioso dei pronomi”. Per ragioni di spazio, sono costretto ad una estrema sinteticita’.
In primo luogo, sarei tentato spesso di seguire l’indicazione del mio defunto amico Jean-Marie Vincent, per cui la prima cosa che deve fare chi vuole ricollegarsi a Marx è “sbarazzarsi del marxismo”. Ma il contesto simbolico in cui mi trovo mi costringe controvoglia a rivendicare fieramente il mio marxismo come provocatorio segnale del mio rifiuto di unirmi alla pittoresco banda dei “pentiti del Sessantotto”. Non si tratta tanto del vecchio e glorioso épater le bourgeois, anche perchè nel frattempo il bourgeois si è fatto irreperibile ed ha interamente « libberalizzato » il suo potenziale di indignazione. Se ci dichiaramo marxisti con un post-borghese di oggi, egli risponderà come Sade: « Français, encore un effort ! ».
In secondo luogo, il modello di Marx resta sempre il solo ad unire una filosofia universalistica dell’ emancipazione con una teoria dei modi di produzione, e del modo di produzione capitalistico in particolare. Da Althusser, acetto la critica allo storicismo ed all’ economicismo, ma non certo dell’ umanesimo. Ritengo che quello di Marx sia un umanesimo rivoluzionario integrale. Non credo alle scienze della storia. Per me le sole scienze in senso proprio sono le scienze naturali. In modo scandaloso, ritengo che Marx sia il terzo ed ultimo grande esponente della filosofia tedesca, dopo Fichte e Hegel (per fare breve, ritengo Schelling un panteista romantico ed uno spinozista kantiano). Non penso affatto che Marx sia « materialista », a meno che si usi questo termine in senso metaforico, como triplice metafora di ateismo, di prassi e soprattutto di struttura contrapposta alla sovrastruttura. Ritengo addirittura Marx un pensatore tradizionalista, perchè si collega alla tradizione comunataria della filosofia europea, contrapposta alla innovazione individualistica ed atomistica moderna (Hobbes, Locke, Hume, Smith, e su Smith condivido l’approccio di Michéa). Considero Denis Collin uno dei pensatori marxisti francesi più interessanti, perchè ha avuto il corragio di criticare gli aspetti utopistici di Marx, simpatici ma errati, di fronte a cui in genere i « marxisti » si prosternano reverenti.
In poche parole, per essere veramente critici, e non solo critici apparenti e addomesticati, bisogna che la critica adotti quello che Descartes chiamava il dubbio iperbolico. Accontentarsi del vecchio e noioso dubbio metodico è da uscieri della filosofia. In una parola, ecco la mia definizione di marxista critico : colui che, fedele all’anticapitalismo radicale di Marx, estende la sua critica al livello del dubbio iperbolico, senza farsi spaventare dal potere inerziale delle posizioni errate consolidatesi in più di un secolo (e per errate, intendo errate soprattutto per storicismo e/o per utopismo). Il resto deve essere consegnato al dibattito. Che però, non è di fatto ancora neppure cominciato, nonostante alcuni coraggiosi pionieri (me ne viene in mente uno, il mio fefunto amico Georges Labica).
R/ Quali sono gli assi principali della tua critica al capitalismo ? Possiamo dire che la crisi attuale del capitalismo rende legittimo un progette comunista di superamento di quest’ultimo ?
Vorrei iniziare con due osservazioni preliminari, prima di affrontare la parte essenziale della tua domanda.
In primo luogo, non penso che esista qualcosa chiamato un « progetto comunista per il superamento del capitalismo ». Su questo punto resto fedele all’impostazione di Marx, che non credeva alla progettualità comunista, ritenendola una formulazione utopica. Il comunismo, ammesso che sia possibile (come peraltro io credo), ed ammesso che possiamo trovarci d’accordo anche solo sulle linee generali del suo profilo storico, economico, politico e culturale (il che, ovviamente, è ancora tutto da verificare), non è a mio avviso un progetto, ma è piuttosto un insieme di precondizioni economiche, sociali, e soprattutto culturali, che non mi sembrano affatto ancora maturate per ora, sulla basa delle quali poi gli agenti sociali concreti possono eventualmente innestare delle pratiche di superamento della sintesi sociali capitalistica. Spero che apprezzerai questa mia cautela definitoria. Il difetto dei gruppi comunisti di estrema sinistra è appunto quello, a mio avviso, di presentarsi davanti a militanti ed elettori con una sorta di « progetto », che si tratterebe ovviamente di applicare. Ma il comunismo non è mai un progetto da applicare. Se è un progetto, allora assomiglia come una goccia d’acqua al comunismo storico novecentesco recentemente defunto (1917-1991), che era appunto un progetto di ingegneria sociale dispotico-egualitaria sotto cupola geodesica protetta (l’espresisione è di Jameson). Si tratta di una concezione positivistica che trova la sua origine non in Karl Marx, ma in Auguste Comte. Nulla di male, ovviamente, purchè se ne sia pienamente consapevoli. Quindi, anzichè ripromettersi un impossibile « progetto » (già Spinoza metteva in guardia del concepire Dio come un soggetto che progetta la costruzione del mondo naturale e morale), cerchiamo invece di costruire le condizioni culturali e sociali all’interno delle quali, senza nessuna onnipotenza progettuale, i soggetti individuali e sociali possano esplicare le loro potenzialità (sempre in senso spinoziano : in Francia, avete la fortuna di avere eccelenti commentatori di Spinoza, come il mio amico André Tosel).
In secondo luogo, penso sia un errore collegare troppo frettolosamente le possibilittà di revoluzione anticapitalista con l’insorgere di una crisi strutturale del capitalismo stesso (come credo che sia quella in corso, scoppiata circa un anno fa). Due grandi precedenti storici non sono rassicuranti. La grande crisi capitalistica chiamata « grande depressione » del 1873-1896 ha dato luogo al periodo più controrivoluzionario della storia contemporanea (colonialismo, razzismo, imperialismo, antisemitismo, eccetera). Se poi passiamo alla grande crisi del 1929, essa ha dato luogo ad un periodo di controrivoluzioni, fascismo e guerre. Il comunismo storicamente costituitosi in Europa dopo il 1945 (non solo nei paesi dell’Est, ma anche in Italia ed in Francia), non è stato un prodotto della crisi economica, ma è stato un prodotto esclusivo delle vittorie militari dell’URSS. Quindi, anche se lo spazio non mi permette di approfondire il tema, considero incauto investire eccessive speranze anticapitalistiche sulla esistenza di una crisi capitalistica, sia pur grave e strutturale.
L’asse principale della mia critica al capitalismo si basa certamente anche sullo scandalo morale della diseguaglianza crescente e sullo scandalo culturale della manipolazione mediatica e della degradazione antropologica dei sudditi dell’individualismo assoluto, ma ammetto che questi non sono per me i due elementi filosofici fondamentali. L’alienazione ed il feticismo della merce sono cattivi, ma si è sempre potuto in qualche modo convivere con essi. Il problema fondamentale per me sta nella dinamica di sviluppo illimitado della produzione capitalistica, ed il fatto che l’infinito-illimitato (in greco antico apeiron, come nel frammento di Anassimandro) è il principale fattore di disagregazione e di dissoluzione di qualunque forma di vita comunitaria. D’altronde, io interpreto la stessa dinamica della filosofia greca classica come uno scontro fra l’elemento comunitario e l’elemento privato, più specificamente nella lotta fra classi subalterne che aspirano a savalguardare la coesione sociale ed economica della comunità, e classi superiori che mirano a dissolvere i legami comunitari, liberandosi dalle pendenze economiche verso la comunità, ed aprendo così le porte all’accumulazione crematistica, di cui Aristotele formulò già una critica radicale che non ha nulla da invidiare a quella che poi in diverso contesto formulò Marx (e si veda in proposito l’insuperata formulazione di Karl Polanyi).
Vorrei insistere molto su questo riferimento ai greci, perchè questo riferimento non viene fatto par arcaismo o erudizione, ma perchè la mia interpretazione di Marx ne viene direttamente influenzata. L’errore principale che si fa in genere sul comunismo è quello di ritenere che il comunismo sia una sorta di « affare privato » delle contradizioni specifiche del solo modo di produzione capitalistico, anzichè essere invece la specifica forma moderna (moderna= capitalistica) di una corrente della storia universale molto più profonda e di lunga durata, quella della opposizione sempre riemergente fra tendenza aggregativo-comunitaria-solidaristica degli uomini e tendenza individualistico-dissolutiva-privatistica di essi.
Questa, almeno, è la mia specifica concezione di comunismo. Da qui deriva, paradossalmente (ma è un paradosso di cui sono ben cosciente, e d’altronde Rousseau diceva già che fra paradosso e pregiudizio bisogna scegliere il paradossa) che Marx non solo è stato un filosofo idealista tedesco classico, ma è anche stato un grande pensatore tradizionalista classico, perchè ha simplicemente ridefinito e riformulato la tradizione comunitaria ed anti-individualistica (gia’fondata nei tempi antichi da Aristotele, e poi rinnovata e riproposta da Hegel in epoca moderna), in opposizione radicale con la novita’individualistica del capitalismo robinsoniano inglese, distruttrice di ogni fondazione comunitaria della societa’, fondazione che Locke metaforizzò sotto il termine di « sostanza » (ciò che sta sotto, appunto), e di cui Locke proclamò l’inesistenza, in quanto nella sua concezione la società, privata di ogni sostanza (metafora della comunità) veniva ridefinita in termine di rete di rapporti mercantili individuali. Hume completò l’opera sulla base della autofondazione integrale economica della’societa sull’abitudine allo scambio, eliminando ogni riferimento filosofico (il diritto naturale), ed ogni riferimento politico (il contratto sociale). Michéa ha completamente ragione nel dire che la contraddizione della « sinistra » sta nel negare le conseguenze del modello di Smith accettandone però i presupposti filosofici ed antropologici.
Il discurso sarebbe lungo, e devo qui interromperlo per ragioni di spazio. Ma ritengo sia gia’ chiaro che sono il portatore di una immagine radicalmente nuova di Marx e delle ragioni di fondo che legittimano una critica al capitalismo dopo l’insuccesso dell’esperimento del comunismo storico novecentesco realmente esistito, e dopo la scoperte delle aporie del modello originale utopico-scientifico di Marx (l’ossimoro ovviamente non è frutto di distrazione, ma è assolumente voluto ed intenzionale).
R/Ti interessi alla geopolitica e pensi che quest’ultima possa essere uno strumento utile ad una teoria critica del capitalismo ?
All’interno dell’universo simbolico autoreferenziale del profilo culturale della sinistra politicamente corretta, la geopolitica è considerata a priori di destra in quanto tale, indipendamente dalle sue differenti scuole e dalle sue diverse proposte. Questo fatto, apparentemente incomprensibile (la sinistra ha infatti nel suo pedigree maestri molto « realisti », da Machiavelli a Marx a Lenin) è dovuta ad una recente evoluzione della sinistra stessa dal realismo al moralismo, più esattamente dal relismo strategico al moralismo testimoniale programmaticamente e quasi voluttuosamente impotente. Questo fascino dell’impotenza moralistica testimoniale ha molte radici genetiche, fra cui le principali sono due. Primo, l’elaborazione del senso di colpa per gli aspetti eccessivamente « realistici » del comunismo storico novecentesco di recente defunto (realismi di Stalin, Mao, eccetera), che comporta un rovesciamento dialettico della violenza rivoluzionaria in moralismo testimoniale programmaticamente impotente. Secondo, il senso di impotenza progettuale dovoto al sovrastare minaccioso di una sorta di Dispositivo tecnico-economico intransformabile (il Gestell di Heidegger, l’Orrore Economico della Forrester, eccetera).
La geopolitica, ovviamente, no è né di destra né di sinistra, e fu sempre pratica da tutti, da de Gaulle a Roosevelt, da Hitler a Stalin. Il fatto di occuparsene, ovviamente, rappresente già un simbolico atto di resistenza intellettuale verso chi vorrebbe imporci una posizione puramente moralistico-testimoniale di condanna di ogni « realismo » in quanto tale. Mentre a suo tempo Marx cercò di andare oltre Hegel (se ci sia riuscito o meno, non può essere discusso qui per ragioni di spazio), la sinistra vorrebbe addirittura seppellire le critiche di Hegel alla cosiddetta « anima bella ».
La versione meno peggiore della geopolitica oggi presente sul mercato è quella detta euroasiatico. Per me questo non comporta affatto un’adesione ad una mistica euroasiatistica, che unisce la vecchia slavofilia all’idealizzazione dell’impero mongolo. Si tratta di una pura geopolitica di defesa europea dalla sua incorporazione nell’impero USA (Sapir, Todd, Samir Amin, eccetera). Ma indubbiamente Sarkozy e la Merkel remano contro, e quindi per ora il progetto (De Grossouvre, eccetera) non sembra attuale. Peccato, perchè personalmente lo condivido nell’essenziale.
R/ In questi ultimi tempi si è sviluppata quella che è stata definita come “Obamania”. In che modo analizzi questa nuova mania mediatica ? In modo più approfondito, ci vedi forse una nuova tattica dalla politica degli Stati Uniti ?
Non credo personalmente alla leggenda metropolitana cui Obama sarebe stato votato dagli americani espressamente per una operazione internazionale di lifting d’immagine, rivolta al resto del mondo ormai indignato per la politica e le idee di Bush. Gli americani sono il popolo più culturalmente introvertito del mondo, e comme tutti i popoli imperiali ed autoreferenziali, dotati di una ideologia messianica di « destino manifesto » su basi bibliche e veterotestamentarie (che fanno da base simbolica anche al loro appoggio integrale al sionismo), « se ne fregano » completamente di quello che il resto del mondo pensa. Votano a partire da se stessi, e dalla loro situazione economica. Ritengo che le cause della vittoria di Obama siano tutte interne agli USA, e derivino dello scoppio della grande crisi dell’estate 2008. I repubblicani avevano condotto la politica economica più oligarchica e disegualitaria dalla dichiarazione di indipendenza del 1776, e si è formata quindi un’alleanza sociologica ed elettorale fra lavoratori e parte bassa della classe media (lower middle class). Negli USA, credo che Obama sia questo, e solo questo. Chi si fa illusioni su di un cambiamento strategico nell’esposizione imperiale e geopolitica USA, credo che resterà presto deluso. La strategia imperiale USA è al di sopra di ogni pur importante cambio di immagine e di classe politico.
Questo, però, è Obama. L’obamania, invece, è un fenomeno europeo, fortemente pilotato dalla manipulazione mediatica, particolarmente televisiva. Il circo mediatico è certamente spinto da logiche interne di spettacolarizzazione, ormai fortemente autonomizzate dalla stessa committenza diretta politica ed economica. Gli europei sono diventati come i sudditi provinciali dell’impero romano. Una volta morto Vercingetorige, strangolato in un carcere romano (sorte molto simile a quella di Saddam e di Milosevic), i sudditti provinciali danno il dominio di Roma per scontato, e simplecemente auspicano che Marco Aurelo sostituisca Nerone. L’obamania, in poche parole, è un fenomeno culturale ispirato dalla volonta’europea di servilismo verso l’imperatore negro buono che sostituisce l’imperatore bianco cattivo, e anche dalla speranza degli intellettuali di sinistra che l’impero diventi « multilaterale » partendo da se stesso, e cioè dall’alto.
Nulla di male. C’è anche chi crede al crezionismo ed alla terra piatta. Ma prima o poi anche il bambino più ingenuo dovrà diventare adulto.
R/ Certi vedono svilupparsi con speranza l’esperienza bolivariana in Venezuela di Chavez. Cosa pensi di questo progetto « socializzante » ? Ha una sua originalità ?
Seguo ovviamente con partecipazione, solidarietà, interesse e speranza l’esperienza bolivariana del Venezuela, di cui apoggio completa-mente sia il solidarismo popolare sia la politica di independenza dagli USA. Questo è ovvio, e non richiede ulteriori specificazioni. Metto però in guardia del ricadere in un vecchio vizietto europeo, l’esotismo rivoluzionario latino-americano di compensazione per la propria pittoresca e protratta impotenza. L’esotismo cinese comportava cinque anni di studio di ideogrammi e di monosillabi diversamente pronunciati, mentre l’esotismo latino-americano appare più a portata di mano, in quanto comporta un semplice corso di tre mesi di spagnolo in un ambiente di « immersione totale ». Il povero Ernesto Che Guevara è diventato un icona pop dell’estetica post-moderna, e certamente non lo avrebbe voluto e meritato. I paesi andini hanno il problema della valorizzazione politica e culturale degli indios, situazione assolutamente non-europea anche se ideale per i viaggiatori politici europei. Se i portoghesi sono brasiliani tristi ed introversi, i brasiliani sono portoghesi allegri ed estroversi, ed io considero il Brasile in prospettiva il paese più interessante per noi europei. Tuttavia, non ho alcuna fiducia nel sindicalismo (vedi Lula), che considero un fenomeno politico poco interessante, a differenza del populismo carismatico (vedi Chavez), che è molto più interessante ed adatto alla cultura politica latino-americana (vedi le analisi di Buela, che condivido). Il populismo ha però un difetto, è cioè che si mantiene soltanto e fino a quando il caudillo popular è vivo ed in buona salute. Certo, meglio il populismo carismatico del partito unico di tipo comunista, data l’esperienza storica dell’ultimo secolo, ma questo non risolve la questione.
Chavez non è interessante per la sua cultura politica, che ripete vecchi modelli del populismo rivoluzionario anti-imperialista latino-americano (che personalmente ho gia’sentito negli stessi termini da studenti latino-americani di sinistra nella Parigi degli anni sessanta), ma per la funziona storica ogettiva che esercita. Dio lo benedica e lo conservi a lungo ! Economia mista, partecipazione popolare, rinuncia alla stupido « ateismo scientifico », collegamento alla tradizioni bolivariste (del resto, anche Guevara era un bolivarista). Tutto bene, finchè il prezzo del petrolio è alto. Chavez non è importante perchè è un modello, o perchè regala libri ad Obama. Chavez è importante semplicimente perchè esiste. Ed è già molto.
R/ Quale è la tua posizione sulla costruzione europea ? In Francia, i « sovra-nisti » respingono ogni idea di progetto politico europeo sovranazionale. Come ti situi in rapporto a questo dibattito? Pensi che sia possibile concepire un so-cialismo europeo ? Ed avrebbe allora una sua specificità ?
I « sovranisti » francesi, che trovano nell’essenziale la mia appro-vazione e la mia solidarietà (sono qui in disaccordo con il caro amico De Benoist), rappresentano una versione di sinistra del gaullismo. Sono quindi un fenomeno quasi esclusivamente francese, in quanto fuori della Francia un vero gaullismo non è di fatto mai esistito. Io do di fatto un giudizio moderatamente positivo del gaullismo, al di là del suo profilo culturale conservatore (che ovviamente non è il mio), in quanto vedo l’aspetto principale della contraddizione europea (come vedete uso il linguaggio di Mao) nell’indipendenza dell’Europea dagli USA, e questo aspetto principale condiziona anche l’aspetto principale (per ora non lo è ancora) soltanto quando il primo aspetto verra’ risolto, e l’ultima base militare USA dovra’ abbandonare l’Europa. Nessuna democrazia ateniese può esistere con una guarnigione persiana o spartana sull’Acropoli. Sebbene io sia un ellenista, non c’è bisogno di essere ellenisti per capirlo.
L’Italia è un paese del tutto privo di aspirazione alla sovranita’nazionale (non ho qui lo spazio per mostrarne le cause, che si riassumono nel fatto che il fascismo ha trascinato nella sua meritata sconfitta anche la sovranità nazionale), per cui l’Italia non è un pays pauvre, ma è un pauvre pays. Triste, ma non privo di dolorosa verità.
L’Europa, a moi avviso, non è una nazione. Se pensassi che lo fosse, e che lo può diventare in tempi non biblici, sarei un europeista convinto. Ma non vedo perchè devo pensare di essere compatriota dei finlandesi, e non dei tunisini, degli estoni, e non degli egiziani. Mi basterebbe una bella confederazione di stati-nazione in Europa, magari aggiungendone pacificamente qualcuno per autodeterminazione (i baschi, ad esempio, che secondo me meritano un loro stato-nazione). In quanto ad un modello di socialismo europeo possibile (impossibile ovviamente con la NATO e le basi USA), esso non potrebbe che essere caratterizzato da un comunitarismo democratico, con la più completa libertà di espressione e di organizzazione politica costituzionalmente garantita. Roba, però, che appartiene al futuro. Per adesso, avrei votato « no » alla costituzione europea, come ha fatto un’intelligente maggioranza di francesi.
23:38 Publié dans Rébellion in Italiano | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : costanzo preve, sinistradestra, comunista critico, marx | Facebook | | Imprimer